Yorick è un personaggio dell’Hamlet. In realtà non è quasi nemmeno un personaggio, è una funzione narrativa, un espediente. In realtà, a voler essere ancora più precisi, Yorick non esiste, tutto ciò che rimane di lui è il suo teschio, dissotterrato da due becchini mentre passa Amleto, che si ricorda del pover Yorick, il buffone di corte, dei suoi sberleffi e delle sue risate, un seguace dello scherzo infinito.
Yorick tiene insieme due estremi che si rivelano complementari: l’ironia e la morte.
In qualche modo ogni opera letteraria svolge la funzione implicita di memento mori. Che il suo autore lo voglia o meno, ogni opera simboleggia la Fine, la morte, nello spazio controllato del pool delle storie inventate, delle narrazioni e delle idee. Come diceva Popper, facciamo morire le nostre idee al posto nostro. Che si tratti dell’opera massimalista o del cesello densissimo del minimalismo, prima o poi arriveremo alla parola fine, per volontà dell’autore o per la sua morte (o, ovviamente la nostra). Le storie sono una simulazione dell’arco della nostra vita, e questo è indubbiamente il motivo per cui ci piacciono tanto: quello che vogliamo non è il senso della vita, ma l’esperienza della vita, questo è forse uno dei punti fondamentali della filosofia di Nietzsche e spiega abbastanza bene perché ci piacciono le storie.
Le storie ci insegnano a morire, perché finiscono. E perché ci danno una visione dall’esterno della vita, e ci danno l’occasione per ridere dei suoi aspetti più ridicoli.
Il valore della risata è quell’eco nel teschio vuoto di Yorick, è dissestare il sacro. Quando Amleto trova i due becchini, assume l’atteggiamento del bigotto: accusa i due becchini di dissacrare i morti, perché mentre lavorano cantano canzoni e ridono.
Amleto: Non ha costui coscienza del mestiere,
se può cantare scavando una fossa?Orazio: Lo rende indifferente l'abitudine.
Si potrebbe teorizzare che i personaggi shakespeareani vanno incontro alla tragedia perché non ridono mai, come i personaggi dei drammi grotteschi dei Coen, o come Jorge nel Nome della Rosa. Tutti questi sono esempi di personaggi che credono che ci sia qualcosa di abbastanza importante e sacro perché non si rida di esso. Per Amleto è la vendetta, per Jorge è Dio, ma la sostanza non cambia: il motivo grottesco che serpeggia sottotraccia è il dogmatismo, il senso di un sacro inviolabile, che viene avvolto nel silenzio e nel rito perché sia sempre più difficile riderne. In Chiesa non si parla perché bisogna essere lontani il più possibile dalla possibilità della risata. Gesù non ride mai nei Vangeli.
Il sacro fa ridere, è grottesco. La serietà è ridicola. Amleto, nel suo delirio dogmatico risulta folle, e il dubbio non è il dubbio dello scettico e del filosofo, ma il dubbio tra due strade altrettanto folli e dogmatiche. La risata è il pericolo più grande per il sacro, perché lo disinnesca.
Come dice Guglielmo ad Adso, nel Nome della Rosa: “Temi i profeti e coloro disposti a morire per la verità, ché di solito fan morire moltissimi con loro, prima di loro, spesso al posto loro.” Jorge vuole tenere nascosta la conoscenza e la risata perché sa che essi sono strumenti di sovversione e di emancipazione. La conoscenza permette la critica del potere e, se il potere si fonda sulla menzogna e l’oscurità, per forza chi lo detiene ha paura che la conoscenza diventi appannaggio della massa.
Nel Nome della Rosa, il simbolo di questa conoscenza sovversiva è il leggendario1 secondo libro della Poetica di Aristotele sulla commedia. Nella storia della letteratura l’archetipo del Grande Inquisitore ricorre spesso: da Jorge a Ivan dei Fratelli Karamazov, a Ozymandias in Watchmen, perfino Silente in Harry Potter ha tratti che ricordano questa figura o le macchine in Matrix che sottopongono tutti a una finzione collettiva o ancora Gordon nel Batman di Nolan, che usa la menzogna per motivare le masse. È l’archetipo del Principe di Machiavelli.
Tutti hanno in comune l’illusione della verità assoluta, una verità in cui hanno investito così tanto dal punto di vista emotivo da poter rischiare tutto per essa. Per usare il lessico di Taleb, potremmo dire che queste verità sono estremamente dure e per lo stesso motivo estremamente fragili, perché la loro durezza è solo un meccanismo di protezione che le espone alla frantumazione, al netto del rischio della smentita, a cui va incontro ogni idea e teoria.
L’ironia è l’antidoto al dogmatismo, sia il dogmatismo dell’assoluto, che il dogmatismo del nichilismo, due facce della stessa medaglia. Tra la disperazione del nichilista e la fede cieca del dogmatico esiste una terza via: quella dell’ironia. La via praticata da Drugo, che voleva solo il suo tappeto, la via di chi smaschera le verità comode e rassicuranti, la via di chi ride del potere, chiunque ce l’abbia. La via di chi fa satira esattamente di quello di cui si ha paura di fare satira.
La via della risata è la via del distacco, del dissesto del sacro, del grottesco della ritualità, della tribalità della messa. Ogni celebrazione è superflua agli occhi dell’ironico e di chi ride. In questo la risata ha un senso morale, e anti moralistico. Costituisce infatti la precondizione dell’onestà nei confronti degli altri esseri umani: la consapevolezza della propria relatività e della relatività altrui come presupposto dell’impegno nell’agire comune. Non ci sono verità da preservare, ma benessere e ricchezza da costruire e riguadagnare ogni volta da capo, e conoscere i propri limiti è il primo passo verso il mettersi insieme per cercare di superarli.
Chi ride, ride di tutto. Anche di Yorick, del suo teschio, delle sue ossa marce e putrescenti. Ride di Amleto e della sua ingenuità, della sua furia dogmatica. Ride nel teschio di Yorick e lo usa come cassa di risonanza.
Chi ride muore ogni volta che ride.
Leggendario perché della Poetica ci è pervenuto solo il primo libro, che parla della Tragedia. Si suppone che il secondo avrebbe parlato della Commedia, come genere letterario e a questa teoria fa riferimento Eco nel romanzo.