Pastiche letterario
Buona parte della fortuna che, solo in Italia, Tolkien e in particolare Il signore degli Anelli, hanno riscosso presso i giovani di destra degli anni ‘70, si basa su una lettura del romanzo fantasy in chiave anti modernista. Se ne sta parlando diffusamente in questi giorni dopo l’inaugurazione della mostra su Tolkien patrocinata dal Ministro della Cultura Sangiuliano e dal governo Meloni. Ma per gli studiosi di Tolkien in Italia è sicuramente un tema già affrontato, almeno a partire dalla ricostruzione storica di Wu Ming 4 nel fondamentale Difendere la Terra di Mezzo, di ormai 13 anni fa.
La lettura che vede nell’opera tolkieniana un monumento all’anti modernismo e un’ode al tradizionalismo si basa su almeno due punti: il confessionalismo proiettato sul Signore degli Anelli, che interpreta il libro come una grande allegoria cattolica, e il tema della sparizione della magia dal mondo mitico dove è ambientata la storia, letta da alcuni come un grande racconto nostalgico del passaggio dalla tradizione alla modernità. Un racconto che dovrebbe quindi mettere in guardia sulle radici profonde, senza lasciare che succeda nella realtà quel passaggio denunciato da Tolkien nel romanzo. Sul tema del cattolicesimo dell’opera di Tolkien è facile soprassedere, considerando che Il signore degli Anelli e ancor più Il Silmarillion sono delle centrifughe di simboli e culture mitiche diverse, un pastiche che sostituisce l’ironia postmoderna con la serietà dell’epos classico ma rimane pur sempre un pastiche. In Tolkien c’è anche il cattolicesimo, ma c’è anche il paganesimo, la magia, il mito cosmogonico veterotestamentario, le leggende celtiche e tutto è riletto sotto una lente fortemente critica dei valori classicamente associati alle culture che Tolkien riusa nella sua creazione mitica.
Un mondo senza magia
Per quanto riguarda invece la lettura che vede in Tolkien un nostalgico passatista che racconti la decadenza di un mondo che passa dalla tradizione magica alla secolarizzazione moderna e senza sacralità, c’è da fare un discorso più ampio. Nell’opera di Tolkien esiste sicuramente il tema di una nostalgia per il passato, per la magia che, durante gli eventi narrati nel Signore degli Anelli, sta orami svanendo per sempre. Ma chi attribuisce questa lettura alla posizione di Tolkien stesso, fa un errore grossolano di analisi delle strategie narrative usate dall’autore. La nostalgia “tradizionalista” non è il senso delle opere di Tolkien ma l’atteggiamento che nelle opere di Tolkien assumono solo alcuni dei suoi personaggi: gli Elfi. È facile confondere il senso di un’opera, che emerge dal modo in cui i vari pezzi interagiscono tra loro, con la posizione dei uno solo di quei pezzi. Cionondimeno è sbagliato.
Prima di tutto gli Elfi sono sicuramente i protagonisti indiscussi del Silmarillion, ma non del Signore degli Anelli. Questa è una prima distinzione importante. Per capirne la psicologia e penetrare il loro atteggiamento nostalgico bisogna leggere il Silmarillion, dove si scopre che in un certo senso è da sempre il destino degli Elfi covare una malinconia decadente, in quanto esseri immortali. Gli Elfi nascono nostalgici: sono legati in modo indissolubile a un mondo che non riusciranno mai a controllare definitivamente ma a cui sono costretti a rimanere, che cambia in modo inesorabile mentre loro rimangono sempre gli stessi. La loro malinconia è quella di chi vede e vive il mondo sub specie eternitatis, con l’immortalità di un Dio, ma allo stesso tempo, senza il disinteresse di un Dio, con l’ambizione degli uomini. Da questo contrasto deriva il loro dramma, un atteggiamento quasi incomprensibile per gli Uomini, il cui Dono, concesso dal Dio Unico della mitologia di Tolkien, è altrettanto imperscrutabile: la morte.
Morte e immortalità è la vera opposizione strategica della letteratura di Tolkien, di cui tradizione e modernità sono solo dei sottoprodotti, effetti di superficie. Il fatto, che rende l’opera di Tolkien interessante, è che Tolkien non parteggia mai né per una parte né per l’altra, ma rabbocca la sua prosa dell’ambiguità irrisolta tra questi due destini e queste ambizioni di due popoli che altro non sono se non due simbolizzazione sublimate di caratteristiche e ambizioni dell’animo umano: non ci sono marche stilistiche o indici strategici che puntano nella direzione degli Elfi, se mai in quella degli uomini, il cui destino è sempre descritto come un Dono, laddove quella degli Elfi sembra essere una condanna.
E infatti, come nelle opere di Hidetaka Miyazaki e nelle tragedie greche, a esser messa in ridicolo è l’ambizione degli Uomini, ambizione che si cristallizza da sempre nel loro tentativo di diventare immortali. La nostalgia malinconica degli Elfi è legata quindi alla condanna a essere immortali, a veder cambiare il mondo senza poter intervenire. Bisogna inoltre annotare che il mondo di cui gli Elfi hanno nostalgia è una invenzione totalmente arbitraria degli Elfi stessi, e in questo Tolkien sembra proprio ironizzare sulla loro malinconia, mettendoli quasi in ridicolo. Infatti il male inizia fin da subito a deturpare e deviare i loro sogni di perfezione, tanto che la maggior parte degli eventi mitici narrati nel Silmarillion trattano di guerre tra Elfi e Morgoth, il principale antagonista della mitologia.
Smontata la supposta sovrapposizione tra la posizione di Tolkien e quella degli Elfi, bisogna anche fare chiarezza sul valore estetico della malinconia. Il motivo mitico della malinconia è riconosciuto nella potenza letteraria da tantissimi autori: Edgar Allan Poe per esempio scrisse che il sentimento poetico per eccellenza è la malinconia perché la malinconia è il sentimento che nasce della bellezza associata alla consapevolezza della sua fine, la morte. In filigrana è lo stesso meccanismo poetico che regola la psicologia degli Elfi e la loro figura all’interno della filosofia tolkieniana. Quindi oltre a non essere esplicitamente sostenuta dall’autore, la malinconia viene usata nella potenza poetica per conferire pathos all’opera, giocandola contro sé stessa, mostrandone il valore pur senza mai difenderlo apertamente.
Al contrario, gli Uomini non incarnano l’eterea malinconia per un mondo perduto in partenza, ma l’azione, incerta e fallimentare, ma allo stesso tempo coraggiosa e per certi versi ingenua di chi è costretto dal suo destino di morte ad avere una visione a corto raggio. Un destino che gli Elfi invidiano almeno quanto gli Uomini invidiano ciecamente l’immortalità che pure non comprendono.
Le figure degli Elfi, soprattutto nelle loro interazioni con gli Umani, sono estremamente sfaccettate, a tal punto che non si può dire che da esse soltanto si possa estrapolare il senso generale dell’opera di Tolkien. Sono allo stesso tempo regali e ridicoli, ammirevoli per la loro grazia e ottusi nella loro indifferenza. Ovviamente per loro gli eventi narrati nel Signore degli Anelli sono letti in chiave nostalgica, rimpiangendo un passato magico che ormai si sta dissolvendo. Ma vale solo per loro. Tutti gli altri personaggi sono sì incerti, fallimentari e sgangherati, senza la grazia e la saggezza degli Elfi, ma sono personaggi di azione, che guardano al futuro cercando di guadagnarselo con le loro proprie forze, consapevoli di essere giocati dal caso, ma rischiando comunque tutto perché quello che ci sarebbe da perdere sarebbe troppo grande.
Non bisogna dimenticarsi che i protagonisti, questa volta davvero esaltati senza riserve dall’opera stessa in modo esplicito, sono gli Hobbit. E al contrario degli Elfi, tormentate figure tragiche da cui la narrazione mantiene un distacco critico sempre ben misurato, sono i protagonisti celebrati esplicitamente dal narratore. Un narratore che sceglie di aprire Il Signore degli Anelli con 100 pagine dove si racconta di erba pipa, feste di paese, birre e fuochi d’artificio. Altro che magia e nostalgia. La felicità degli Hobbit è già una felicità de-sacralizzata, non magica e molto terrena, senza per questo essere meno autentica di quella elfica. Tolkien apre il suo romanzo più famoso dicendo: si può essere felici anche senza magia, senza illusioni, senza sacralità.
La tecnica è un simbolo della modernità?
Vorrei infine analizzare il modo in cui Tolkien affronta un ultimo tema legato alla sfera semantica della modernità: la tecnica. Buona parte della confusione che si fa nell'attribuire a Tolkien la nostalgia passatista e tradizionalista del mondo sacrale è la sua critica alla tecnica, vista come simbolo della sua battaglia nostalgica.
Il Signore degli Anelli è la storia di una quest il cui fine è ottenere una felicità non magica e molto terrena. Il fatto che invalida la tesi di un Tolkien anti-modernista e avversario della tecnica tout court è che questa quest viene perseguita con i mezzi della modernità. Non sono gli Elfi con la loro magia a distruggere l’Anello, non sono le aquile divine a portare Frodo al Monte Fato. Si va a piedi, percorrendo il mondo da soli, con le sole forze di due Hobbit e di una compagnia riunita per scortarlo. La cosa meno magica che esiste.
Tra la tecnicizzazione incontrollata di Sauron e la nostalgia fatata e sacrale degli Elfi, Tolkien propone una terza via. L’impegno concreto e “civico” degli Hobbit e degli Uomini. Il fatto che nel romanzo ci sia una critica serrata alla meccanizzazione industriale è giustificata senza bisogno di tirare in ballo la tradizione e il passatismo, ma solo perché è distruttiva e poco lungimirante, non perché gli alberi sono sacri e le foreste magiche. Quello della lungimiranza è un tema che Tolkien aveva affrontato anche in precedenza nella sua produzione. C’è un racconto, contenuto nei Racconti Incompiuti, in cui si narra la storia di un uomo del lignaggio di Elros, Aldarion, innamorato di una donna, Erendis. Aldarion è un marinaio e un carpentiere, costruttore di navi. La moglie, che ama la natura, non lo costringe a lasciare in pace gli alberi, ma almeno a ripiantarli dopo che li ha usati per costruire. Come si vede già in questa storia, la tecnologia non è disprezzata in Tolkien, né tanto meno demonizzata, ma la vera tecnologia è quella che riesce a ingegnerizzare la sostenibilità futura di una attività. Solo la tecnologia incontrollata e distruttiva è demonizzata.
Gli eroi di Tolkien sono tutti carpentieri, fabbri, artigiani. Quella di Tolkien è una mitologia della tecnica. Feanor, Celebrimbor, i Nani, sono figure mitiche esaltate per le loro qualità, per la capacità di condensare l’intuizione artistica eterea e fluttuante nella materia e nella pratica. Non è un caso che le storie più importanti scritte da Tolkien girino intorno a degli artefatti che ancorché magici, traggono la loro potenza dall’ingegno ingegneristico e artigianale che li ha prodotti (i Silmaril e l’Anello). E tutta la storia dell’universo di Tolkien è intrecciata alla storia della tecnica, che non è quindi il segno della modernità che avanza e che Tolkien teme, ma una costante fin dall’inizio dei tempi.
Non bisogna scordarsi, infine, che Il Signore degli Anelli si chiude, fatto che i film tendono a far dimenticare, con il ritorno degli Hobbit nella Contea e con una avventura fortemente anticlimatica in cui gli eroi di una avventura che ha messo in gioco il destino del Mondo devono ripulire il loro piccolo pezzo di terra dai cattivoni che vi si sono rifugiati. Un’operazione totalmente realistica, senza alcuna pretesa universalistica in cui le competenze organizzative e il coraggio appreso dagli Hobbit durante il loro viaggio viene speso sul loro territorio.
Se c’è qualcuno che Tolkien ci sta suggerendo di imitare non sono certo gli Elfi, alteri e che covano un vittimismo che si finge disinteressato1, ma gli Hobbit che fumano la loro erba pipa al tramonto. Un immagine molto terrena. Poco sacra. E senza magia. Ma non per questo poco desiderabile.
Anzi.
Non sto criticando la scrittura degli Elfi. Anzi, le criticità messe in luce dal distacco critico di Tolkien quando ne descrive le gesta li rende forse i personaggi più profondi e interessanti dell’opera.