Chiunque sia avvezzo alla riflessione conosce bene la frustrazione che deriva dall’immaterialità delle pratiche intellettuali. Le idee, i concetti e i ragionamenti non possiamo vederli, e quando hanno degli effetti concreti, non esiste garanzia del loro potere causale diretto sui fatti. Piuttosto, sorge sempre il sospetto che sia stato tutt’altro, qualche meccanismo irriflessivo e pre-critico, a produrre una persuasione, e mettere in moto gli eventi.
Credo che gli scrittori siano semplicemente persone che percepiscono questo disagio dell’irrealtà del pensiero in modo meno sopportabile degli altri. E quindi si mettono a scrivere per dare un po’ più di sostanza alle loro idee. L’inchiostro le appesantisce di realtà. Le rende mente effimere. Credo anche che dietro il feticismo del libro di carta e inchiostro dal quale anche io non posso liberarmi, nasca dal desiderio plastico dei più portati per le discipline intellettuali.
Ma la scrittura è la prima e più rudimentale forma di materializzazione delle nostre idee: rudimentale perché è in realtà ancora una forma piuttosto poco materiale di espressione. Un testo scritto diventa un testo orale quando lo leggiamo ad altri, e di nuovo la solidità della scrittura ritorna alla etera natura del flatus vocis, parole che fluttuano nell’aria. Non possiamo acciuffarle, non possiamo rigirarle tra le mani, e, a meno che non siamo nello spazio virtuale di un’altra metafora, non possiamo cambiare prospettiva su di esse. Nell’altro caso possibile, quando leggiamo per noi stessi, il testo scritto vanta sì le sue qualità di supporto materiale al pensiero, che lo potenzia e lo fa espandere verso livelli di complessità altrimenti irraggiungibili, ma pur sempre rimanendo una voce virtuale all’interno della nostra testa. Una simulazione di lettura ad alta voce, letta con la tanto indefinibile quanto familiare “voce interiore”. Sfido a trovare qualcosa di più immateriale della lettura, la cui stampella legnosa rimane il libro di carta che stringiamo tra le mani, muto e ottuso se non fosse per la finzione che esiste solo nella nostra mente, di attribuire significati a chiazze nere stampate sulle pagine.
A un certo punto anche la scrittura non basta. Perché il senso più prepotente non è di certo l’udito (che ci permette di ascoltare il poeta che declama e la nostra voce interiore virtuale), ma la vista, e quindi produrre un’opera che si può vedere e che fa della vista il principale canale di fruizione e di articolazione del suo messaggio, è lo step successivo per emanciparsi dall’irrealtà del pensiero. Il montaggio video. Forse neppure questo è abbastanza per rendere tangibile il proprio lavoro intellettuale - nel senso letterale del termine servirebbe qualcosa che si possa toccare, come un dipinto o un tavolo - ma distanzia quanto basta l’intenzione artistica, così arbitrariamente fluttuante nello spazio insindacabile della nostra mente, dalla sua realizzazione concreta da garantire il distacco necessario a riscattare la poesia e l’arte prima di tutto in quanto lavoro, demistificandola della sua aura divinatoria. Più che ispirazione oracolare, la pratica artistica è un esercizio Zen.
Montare un video è una pratica di svuotamento del sé, di alienazione della propria individualità. E laddove il tiro con l’arco e la scherma producono l’effetto di svuotamento a partire dalla ri-articolazione dei rapporti dell’adepto con lo spazio, il montaggio video lo produce a partire dalla manipolazione del tempo. Questo rende il montaggio ancora vincolato a quella frustrazione della virtualità, ma virtualizzando anche la fatica del collage fisico, attenua allo stesso tempo sia le disgrazie dell’immaterialità che quelle del sudore del lavoro manuale. L’artigianato e la poesia, i due sport di cui esso è un ibrido, sono virtualizzati come se fossero meccaniche di gameplay di un videogioco. Quello che nella realtà costerebbe un tipo di fatica spaziale e fisica, nel videogioco, che è il software di montaggio, costa una fatica temporale e ritmica.
L’operazione che l’attività del montaggio opera sul tempo reale del montatore è un'operazione di frammentazione che riflette la frammentazione del materiale di lavoro. Il bravo montatore lavora in un orizzonte in cui ogni frame del materiale da montare diventa significativo. 1/24 di secondo, per la maggior parte dei casi. Questa è la quantità minima di tempo che il montatore considera come significativa. Se nella vita quotidiana, il significato si crea su una scala di grandezze dell’ordine delle ore e più raramente dei minuti, il montatore lavora in funzione dei decimi di secondo. La sua linea del tempo esplode e vi si sposta espandendola e rimpicciolendola a suo piacimento, manipolando stringhe di tempo con il potere relativistico di una divinità. Come in un ping pong in cui si passa dall’infinitamente piccolo alla visione di insieme costituita da centinaia di minuscoli frame analizzati uno ad uno. L’effetto di questa frammentazione del tempo è la frammentazione dell’attenzione. La particolarità di questa frammentazione è che essa non crea confusione e distrazione ma semplicemente moltiplica le possibilità della concentrazione, perché le rinnova di 24esimo di secondo in 24esimo di secondo, in uno spazio di tempo nel quale non c’è abbastanza spazio perch? l’ego si definisca. In quel guscio di noce, si può essere re dello spazio infinito, quello spazio in cui il montatore coincide con il suo footage, e nello spazio di pochi secondi condensa un’idea abissale, la vertigine di un profluvio romanzesco di parole, in un’unica singola immagine, in un taglio, uno sguardo sospeso, un movimento di macchina mozzato, abbandonandosi alla fiducia nella sintesi e al conseguente sospetto della profondità: alla certezza che l’abisso esista solo nell’effetto di superficie attraverso cui lo raccontiamo. Quello dello schermo sul quale lo mostriamo. Uno schermo piatto.1
Per approfondire:
Dovresti leggere Scolpire il tempo di Tarkovskij, si affrontano (anche) questi temi.