La domanda tradisce un certo gusto adolescenziale per la mania di controllo - è quindi semplicistica - che una vita culturalmente impegnata dovrebbe disinnescare, essendo la vera cultura un’educazione al godimento dell’argomentazione che non si fa riassumere in un voto, ma che allo stesso tempo finisce per alimentare, essendo la cultura nient’altro che un colossale sforzo di mappare narrativamente, e quindi in fin dei conti semplificare, il caos ben più incomprensibile che sta sotto.
La cultura funziona quando diventa un buon modello metaforico della complessità di cui è sineddoche. E quindi perseguendo il suo obiettivo pedagogico offre anche il più potente veleno al suo stesso antidoto. Non bisogna scambiare metafore per letteralità. E non bisogna far finta, come metteva in guardia Eco dal fare, che tutto sia metafora e simbolo, altrimenti nulla lo è, e quella realtà che sta sotto evapora, tutto diventa arbitrario, eccetto che lo diventa solo nella nostra testa, costringendoci a una illusione che sarà molto doloroso sopportare quando verrà smentita.
La cultura deve prepararci al mondo: è un grande stagno che mima la forma del mondo, ripercorre la sua orografia, ma la mappa non è il territorio. Questo non significa che dobbiamo un giorno lasciare lo stagno per sfociare in mare aperto. Il bello della cultura è che lo stagno è un isola dentro il mare aperto, e quindi partecipa della ostilità incomprensibile del mare, e allo stesso tempo ci permette di girarci intorno e cercare di puntellare, da una posizione un po’ più sicura, ma non sicura tout court, le rovine che vanno alla deriva nell’oceano tutto intorno. La cultura rende il caos più maneggevole, ma non per questo meno caotico. Se mai, la maneggevolezza ce ne fa percepire l’ingovernabilità in misura ancora più precisa, perché rimpicciolisce il caos a una scala comprensibile, così vicino da farcene percepire la distanza. Il lavoro dell’intellettuale che vive una vita culturale ricca è far esplodere i collegamenti, mappare il continente della cultura non rimanendo fermi su un’opera, perché è dalla galleria di immagini e non dal singolo dipinto, che emerge significato. Il lavoro dell’intellettuale è quello di fare continuamente la spola, come un bibliotecario delirante che mette a posto i libri sugli scaffali, tra la mappa e il territorio, per non dimenticarsi mai che senza la mappa non saprebbe dove diavolo andare, e per non dimenticarsi mai che senza il territorio, la mappa sarebbe totalmente inutile.
Come dei forsennati giocatori di Zelda: Breath of the Wild, che aprono e chiudono la mappa all’impazzata, dopo ogni passo avendo il dubbio di aver sbagliato strada di nuovo, il lavoro dell’intellettuale è quello metodico, poco epico e molto polveroso, del traduttore, che non azzarda orizzonti, che va a tentoni, andando avanti e indietro dal dizionario al testo, in un confronto di confronti, tentativi ed errori che in una quadratura del cerchio indefinita ci avvicinano a trovare una quadra di cui non ci sarà mai una conferma finale.
Se ogni traduzione è un tradimento non dobbiamo scordarci qual è, dunque, la nostra colpa originaria, il peccato del tradimento primigenio: che stiamo traducendo un testo che non è un testo e stiamo mappando un territorio che non è un territorio. Perché i testi e i territori non sono che altre mappe a loro volta. Che non c’è nulla che garantisca che la regola di proiezione che usiamo per creare le nostre mappe, le nostre traduzioni, le nostre metafore, funzioni. Eppure che l’alternativa, se ogni parola è menzogna, ogni gesto falsità, ogni sorriso una smorfia, sarebbe rimanere muti per sempre, come l’attrice.
Ma come uno sbruffone, barbuto e polveroso, a volte preferisco alzare la faccia dal vocabolario, drizzare la testa, per un solo momento, tra il tramestio di pagine girate e l’umidità delle dita, e lanciare il mio barbarico yawp sopra i tetti del mondo. Senza esagerare. Bisogna tornare con la testa china e il pollice che duole, subito dopo.