“E sono sopravvissuto per raccontarlo.”
(H. Melville, Moby Dick)
La storia della letteratura è la storia dei tentativi di risolvere il mondo nel linguaggio. In essa è da sempre presente una tendenza e uno stile, non di scrittura ma di ambientazione, al quale solo di recente se n’è aggiunto un secondo. Il primo è lo stile della letteratura fantastica, con cui nascono sia il linguaggio che la letteratura. Il secondo è il realismo. Il secondo tuttavia non è che un sottoinsieme del primo, una variazione sulle sue infinite possibilità. Il realismo e il fantastico non differiscono che per grado di intensità, poiché entrambi attingono alla stessa radice, il linguaggio, che altro non è che la prima forma letteraria partorita dalla mente umana. La nascita del linguaggio è il primo evento letterario della storia. Un’analisi della sua natura, chiarirà in che senso tutta la letteratura è fantastica e in che misura lo sia inevitabilmente anche il realismo. Nominare significa dominare: ai popoli primitivi è chiaro il legame metafisico che lega la cosa al nome. Questi non sono meri segni arbitrari ma necessari immobilizzatori dell’essenza della realtà, che potremmo quasi dire viene preceduta dal nome, di cui essa non è che incarnazione successiva. L’ingenua convinzione metafisica dei primitivi ci rivela comunque qualcosa: il linguaggio nasce come arte magica piuttosto che come strumento meccanico. La secolarizzazione dei moderni concede il singolare privilegio di salvare la magia ma senza rinunciare a spiegarla nei termini della materia. Il linguaggio è per definizione letteratura fantastica, e rientra nell’elenco di questa come unico sotto capitolo (di cui i generi letterari sono a loro volta sotto-sotto-capitoli). Esso ci intrappola nel limbo semiotico della rappresentazione, nell’interregno all’interno del quale possiamo sempre e comunque riferirci all’immagine proiettata sullo schermo senza poterla mai toccare con il linguaggio. Il linguaggio è un ultimatum: ci costringe a scegliere tra l’azione materiale e la stasi eterea del segno sulla carta. Ci garantisce così la libertà di poter dire quello che vogliamo, ma non la certezza di poter fare quello che vogliamo. E forse è proprio dall’evidenza di questa seconda impossibilità del fare che nacque il desiderio di creare un mondo parallelo di totale libertà del dire. La storia del linguaggio è la storia della letteratura, che è a sua volta la storia della letteratura fantastica, in quanto tutto il linguaggio nasce da un azzardo, da una scommessa senza garanzie riguardo all’attrito che il linguaggio (creato paradossalmente per sfuggire al mondo) eserciterà sul mondo. In un passo, Borges esprime questa reciproca esclusività tra linguaggio e azione, discorso e pratica, idea e realtà: dove la mappa arriva a coincidere con il territorio, essa diventa inutile perché perde lo scarto che separava realtà e linguaggio permettendo a quest’ultimo di costruire nuove prospettive e nuove metafore:
“In quell’Impero, l’arte della Cartografia raggiunse una tale Perfezione che la mappa di una sola Provincia occupava tutta una Città, e la mappa dell’impero, tutta una Provincia. Col tempo, codeste Mappe Smisurate non soddisfecero e i Collegi dei Cartografi eressero una Mappa dell’Impero, che uguagliava in grandezza l’Impero e coincideva puntualmente con esso. Meno Dedite allo Studio della Cartografia, le Generazioni Successive compresero che quella vasta Mappa era Inutile e non senza Empietà la abbandonarono alle inclemenze del Sole e degl’Inverni. Nei deserti dell’Ovest rimangono lacere Rovine della Mappa, abitate da Animali e Mendichi; in tutto il Paese non c’è altra Reliquia delle Discipline Geografiche.”
È questo movimento di ritorno al mondo che è il dramma messo in scena dalla letteratura. Non attraverso una copia del mondo, che sarebbe impossibile dal momento che linguaggio e mondo non condividono la stessa struttura metafisica (dal momento che una tale struttura non può esistere), ma attraverso la finzione. La finzione è l’unica via d’accesso al mondo, proprio perché ne ignora il riferimento diretto ed esercita la sua leva sull’unico perno possibile: la nostra percezione della realtà, la nostra soggettività. La letteratura mira a esaurire la realtà e ricapitolarla dentro di sé, esaurendo e ricapitolando i modi in cui si strutturano le nostre prospettive su di essa. La storia della letteratura è la storia di opere la cui ambizione si è atrofizzata nella tradizione routinaria, perdendo la carica sovversiva e totalizzante che il linguaggio ha da sempre. Ma la storia della letteratura è anche la storia delle opere che l’hanno contraddetta. Moby Dick è una di quelle opere che ricordano alla letteratura ciò che essa può essere, sottraendo la comunità dei lettori al periodo di normalizzazione della letteratura e rispedendola nell’orizzonte creativo. “La materia di cui tratta non è che un’abnorme espansione di un banale antefatto. Un incidente di caccia. […] L’incidente consiste in questo: un capitano baleniero, Achab di Nantucket, è mutilato d’una gamba nello scontro con un capodoglio, Moby Dick, noto soprattutto per la caratteristica della bianchezza. Tutto qui.” Sono le parole di Alessandro Ceni, traduttore di Moby Dick per Feltrinelli. Mi ha sempre colpito quel sarcastico “tutto qui”, perché se la materia di Moby Dick fosse riassunta davvero in quel tutto qui, Moby Dick sarebbe un romanzo d’avventura, tipico nella struttura, nei fini e nello stile alla norma romanzesca dell’epoca. Ma Moby Dick non è un romanzo. Ne è la sua contraddizione. Il banale antefatto e l’oggetto della ricerca non sono che espedienti parodistici della tradizione avventurosa del romanzo inglese. La trama di Moby Dick non esiste, o al massimo potrebbe essere riassunta in una partenza, un viaggio di cui si racconta poco e un naufragio dopo una caccia tragicamente conclusasi. Ma il punto è che Moby Dick parla molto poco di tutto ciò: la maggior parte del tempo della lettura è occupato dalla digressione, dalla definizione di una cornice enciclopedica e saggistica sulla baleneria, sui suoi strumenti, le sue superstizioni, la sua professionalità, i suoi tempi ecc. Il libro non racconta le gesta, non ha dunque, un andamento “cinematografico”, perché non narra l’azione, bensì l’estemporaneo, il riflessivo, il saggistico, il digressivo. La maggior parte del tempo Melville la passa lontano dall’azione, dalla presa diretta. È questa la sua geniale trovata: il rifiuto della rappresentazione, l’affermazione della superiorità del linguaggio sul mondo. Il racconto dei fatti narrativi, della trama, è una concessione che Melville ci fa, che non ci è dovuta, che contraddice le nostre aspettative sulla portata epica del romanzo, e che anzi è usata anch’essa trasfigurata nell’orizzonte della metafora, piuttosto che del mero intrattenimento “visivo”. Moby Dick è una continua delusione delle aspettative del lettore, un continuo digredire, lontano dall’azione per raccontare il contorno, il dettaglio, l’insignificante, perché l’intento di Melville non è intrattenerci per il tempo della durata del libro, bensì trattenere la nostra coscienza tra le righe del suo linguaggio per sempre. Melville vuole farci cambiare prospettiva, vuole fornirci un frame di riferimento, non darci un prodotto da consumare nel frame in cui già siamo. Per questo si sottrae continuamente alle regole di quello che potremmo chiamare “mercato ludico”, che ci intrattiene con l’azione e il colpo di scena e il dramma e il movimento costante. Moby Dick è un libro che riflette continuamente su tutto quello che un libro può essere, trasformandosi in saggio, esegesi biblica, poesia, piece teatrale, romanzo epico, picaresco, commedia, non-sense, enciclopedia, epitaffio. Così facendo sottrae continuamente al lettore il piacere dell’intrattenimento immediato e consumistico (Moby Dick fu un totale fallimento commerciale) ma lo ripaga con un piacere che si consuma a lungo termine, perché ti fa rimanere impigliato nella struttura della sua creatività. Decide di fare attrito sull’unico piano su cui il grip della letteratura funziona: la riscrittura della nostra soggettività. E quindi non desidera fissare immobile come in una istantanea una realtà o un’azione, bensì fornirci un repertorio di prospettive e di frame, articolare il linguaggio e le metafore entro cui ricapitolare la nostra esperienza inevitabilmente soggettiva del mondo. Tutta la grande letteratura è per definizione in anticipo sui suoi tempi, è inattuale, perché crea il linguaggio in cui verrà giudicata essa stessa, definisce le categorie entro cui verrà incasellata. Per questo essa ha una portata sovversiva: costringe a mettere in discussione il passato, a cambiare la nostra immagine del mondo.
Moby Dick è un’ode alle possibilità creative del linguaggio e della letteratura, un’affermazione della potenza dell’immaginazione. Ismaele, alla fine del libro, dopo le tre giornate di caccia della Balena Bianca, simbolo polisemico, incarnazione dell’imponderabile e dell’irraggiungibile, sopravvive al naufragio per raccontare la storia (vd. Citazione in esergo). Un messaggio di speranza laica, di provvidenza naturalizzata, una speranza senza garanzie: che pur nella più infuriata delle catastrofi e nelle tragedie più ridicole, possiamo raccontare una storia. Pur nella nostra fallimentare caccia della balena bianca, del male, del mistero, dell’ignoto, della verità, noi possiamo raccontare la storia del nostro fallimento, e ribaltarlo così in una vittoria immortale, che ci sopravvivrà grazie al linguaggio.
“Limitati a cambiare te stesso. È l’unico modo in cui puoi cambiare il mondo.”
(Ludwig Wittgenstein)