Lolita è un romanzo del 1955 scritto da Vladimir Nabokov. Ma è anche un film del 1962 diretto da Stanley Kubrick. Oltre a essere un altro film ancora del 1997, ma di questa storia non ci occuperemo oggi.
Lolita è quindi almeno due opere, e il rapporto di precedenza gerarchica che il libro sembra avere sul film che lo traspone è sempre apparente e fuorviante. Anzi, una caratteristica interessante della Storia del Cinema è che dimostra quanto sia poco fondato il mito del libro meglio del film, che è un mito per lo più recente nato dall’attenzione maniacalmente dogmatica dei fan di grandi opere letterarie mainstream, il cui vaglio sanzionatore ha maglie talmente strette che pone la fedeltà alla fonte come valore necessario e sufficiente a decretare la bellezza di un’opera di appagamento onanistico. Da Harry Potter al Signore degli Anelli, da Dune ai cinecomics, una folta schiera di detrattori manifesta il proprio dissenso con l’accusa di tradire il testo, che diventa sacro nella sua fondatività quasi religiosa, e il cui tradimento diventa, rischiosamente, blasfemia e la cui buona riuscita, viceversa, celebrazione.
Letteratura e cinema hanno due grammatiche diverse e rispondono a regole narrative differenti. Quello che funziona in un medium può non funzionare in un altro, e non garantirne l’efficacia. Non solo c’è poca chiarezza su questa operazione di adattamento da un medium all’altro, per cui la fedeltà dovrebbe essere valutata in modi più raffinati e stabilendo criteri di isomorfismo di non facile definizione che non siano la semplice fedeltà letterale, ma piuttosto di struttura e spirito di un’opera, ma c’è anche un enorme fraintendimento sul fatto stesso che un film tratto da un libro, debba necessariamente esserne un adattamento pedissequo, tesi continuamente smentita dalla storia del cinema. Il processo di Welles è tratto dal Processo di Kafka ma ne è un riadattamento, così come Perfect Blue di Kon, i cinecomics, Lo Squalo e Lolita stessa. Rappresentano spesso dei tradimenti dei testi di partenza ma il tradimento dell’opera di ispirazione non è un motivo di critica fondato. Qualsiasi critica che accusi una di queste opere di scarsa fedeltà alla fonte sta clamorosamente mancando il punto. In un’opera può succedere di tutto, perché ogni opera riscrive le sue regole. Lolita e Lolita, ad esempio, sono due opere distinte e autosussistenti, che dovrebbero essere valutate più con un criterio classificatorio che comparativo. Poco importa che la seconda sia ispirata dalla prima: le ispirazioni entrano nel discorso estetico per quanto riguarda la ricostruzione di un panorama critico e intertestuale, ma non costituiscono un criterio estetico in sé, quanto più un orpello al discorso. Se un’opera funziona, non dipende dal fatto che sia ispirata o meno a un’altra opera o al fatto che rispetti, rielabori o tradisca di sana pianta quell’opera di partenza, ma dalle sue regole interne e dal modo in cui il testo rispetta i criteri che lui stesso pone implicitamente.
Tutto questo discorso perché mi sono trovato a dover fare i conti con l’analisi di Lolita e Lolita, e ovviamente il confronto tra film e libro è il metodo critico più semplice che viene in mente in prima battuta. In questo caso è tuttavia profondamente azzeccato, a dimostrazione che anche un approccio teoricamente problematico e non risolutivo come il confronto tra ispirazione e opera derivata, può essere fecondo nei casi giusti. In questo caso succede perché il libro funziona felicemente bene, mentre, a parer mio, il film un po’ meno. Confrontare un’opera che funziona con una che non funziona è un criterio accettabile. Poco importa che in questo caso le due opere stiano in un rapporto di derivazione reciproca.
Quindi perché? Perché il film sacrifica alcune sottigliezze che erano proprio quelle che rendevano il romanzo un capolavoro del suo medium. Il film non riesce a fare altrettanto nel cinema perché non riesce mai a replicare nella sua grammatica la sottigliezza e la volubile contraddizione così cristallina e marmorea espressa nel romanzo. I problemi del film sono problemi di scrittura ed è emblematico che sia lo stesso Nabokov ad aver scritto sia la sceneggiatura che il romanzo, a dimostrazione che padroneggiare e piegare la voluttà di un medium alla propria seduttività poetica non garantisce di poterlo fare con tutti i media. Problemi di scrittura che a tratti sono superati e riscattati dalla regia e da alcune idee di messa in scena di Kubrick, che lotta tra il ritmo impostogli dalla scrittura claudicante e l’estro visivo impareggiabile che lo contraddistingue. In particolare la sequenza di apertura, non a caso la meno dialogata e l’entrata in scena di Lolita, sono due momenti che valgono da soli la sottigliezza del libro, anche se forse sono debitori della conoscenza pregressa che io, da lettore prima del libro che del film, mi portavo dietro nella loro interpretazione. Sicuramente sono scene di grande potenza espressiva e comunicativa e, come accade spesso nel cinema, sono le scene appunto con meno dialoghi. Mi riferisco principalmente all’inquadratura iniziale di una mano maschile che smalta il delicato piedino di una ninfetta, che esprime una devozione e una delicatezza e allo stesso tempo una sensualità perversa con il solo uso di un’immagine; e alla scena in cui il protagonista Humbert si vendica di Quilty per il furto del suo sogno perverso, all’inizio del film, quando Quilty viene ucciso per mano del protagonista. Nella scena, Quilty scappando si nasconde dietro un dipinto che raffigura una ragazza giovane e bella, che potrebbe benissimo essere una delle ninfette a cui Humbert è devotamente fedele. Humbert spara e uccide Quilty. I fori di proiettile bucano il quadro, e la ninfetta che vi è raffigurata sopra, sembra quasi lei stessa l’unico e il vero cadavere nella stanza, perforata dai proiettili di Humbert che nel tentativo di inseguire il suo sogno perverso, lo ha ucciso per la troppa foga di una passione proibita.
Queste due scene hanno già tutto di Lolita, ne colgono perfettamente lo spirito e lo esaltano in un altro mezzo. Ma sono le uniche a essere dei capolavori. Il resto del film si trascina, costringendo lo spettatore a rievocarne la distanza dal libro, e quando un film ti ricorda continuamente la sua distanza dal libro da cui è tratto vuol dire che sta fallendo a costruirsi da solo e stenta ad essere addirittura una brutta copia. Il film di Kubrick cade un po’ in questa buca estetica e non ne esce. Non è né una trasposizione fedele né una rielaborazione abbastanza estrosa da risultare nuova.
I problemi principali della scrittura del film sono legati proprio al protagonista Humbert Humbert. La sua figura letteraria era contraddistinta da una melanconia decadente e dal bilico tra l’autocommiserazione per il suo perverso interesse per le ninfette e una difesa pseudointelletualistica o una sua giustificazione estetica. Convive in lui la consapevolezza della vanità di questo progetto, la frustrazione anticipata e il timore paranoico di fronteggiare il momento in cui le sue trame gli si ritorceranno contro, ma allo stesso tempo l’efferatezza del suo disinteresse per gli altri e una soddisfazione narcisistica della sua voluttà. La contraddizione di Humbert deriva dal fatto che vive e racconta con il distacco oracolare dell’artista e l’amoralità della bellezza, i crimini meschini che lui stesso ha commesso a spese di Lolita, rovinandole la vita in modo immorale. La sua ambiguità è quella di essere allo stesso tempo carnefice e lucido estensore della sublimazione del delitto nell’arte che lo riscatta. Questo continuo cortocircuito che viene esplicitato alla fine del romanzo è ciò che ne determina l’estremo interesse e rende il libro un capolavoro che riflette continuamente sul valore dell’arte e della bellezza in un mondo dove esiste il male. Tanto più che Humbert stesso rappresenta nella sua corporeità il contraltare di una bellezza decadente alla bellezza frenetica di Lolita, in una personificazione forse stereotipata dell’opposizione tra Vecchio e Nuovo Continente a metà Novecento. Questo è un altro punto importante. Humbert non è vecchio. Quando muore ha 42 anni, questo significa che quando incontra Lolita ha 37 anni. La sua età è determinante per la caratterizzazione del suo personaggio e della sua ambiguità: Humbert è alla fine un seduttore, per quanto patetico e goffo, ma deriva la sua seduttività anche dal contrasto tra la sua gioventù e la sua malinconia. Per Lolita può diventare una specie di riferimento erotico anche perché non è identificabile troppo strettamente con il padre, ma più con un uomo adulto. Nel film questa ambiguità si perde perché Humbert è visibilmente più vecchio, sulla cinquantina, e sostituisce il fascino della malinconia dell’uomo maturo con l’assertività dell’uomo di mezza età. Forse per far risultare il contrasto anche visivamente più impattante tra la giovane Dolores e l’anziano Humbert e sollevare una reazione di disgusto più marcata. La scelta di casting non è felice. Inoltre l’attore che interpreta Humbert è troppo poco dubbioso, troppo risoluto nei suoi intenti e dalle sue espressioni non emerge il senso di paura della trasgressione e di abbandono al fascino del proibito che convivono nel personaggio letterario. Nel film questo sarebbe stato particolarmente difficile da mettere in scena poiché ci sarebbe dovuto essere un grande gioco di espressività per comunicare una ambiguità che nel libro è resa vividamente grazie al fatto che è lo stesso Humbert che parla in prima persona. Nel film Humbert è solo un uomo di mezza età che ha una passione per le ninfette: tutto quello che c’è nel mezzo si perde. E qui riprendo il discorso di apertura: non che l’Humbert cinematografico dovesse rispecchiare quello letterario. Non è questo il punto. Sarei stato felice di vederne uno diverso ma con lo stesso grado di profondità e di espressività ambigua. Il punto è proprio che in confronto al libro il personaggio del film risulta impietosamente piatto e monocromatico, e questo non ha a che fare con il contenuto della sua psicologia, ma con il modo in cui è restituita. Come recita la recensione di Fumettologica al Sandman televisivo rispetto a quello fumettistico:
dove il personaggio comunica austerità, fascino e timore, Sturridge incarna indolenza, apatia, pescelessismo.
Ultima nota. Un altro punto in cui si perde la sottigliezza del romanzo senza che sia rimpiazzata è il fatto che tutti nel film chiamino Dolores con il soprannome di Lolita. Nel romanzo è il soprannome che Humbert dà nella privatezza delle sue fantasie personali a Dolores, e contribuisce a creare quell’alone di perversione maniacale che deriva dalla creazione di una intimità fittizia e masturbatoria del protagonista, che si dimostra ancora una volta grottesco e patetico nel voler ottenere a tutti i costi nella realtà la fantasia che si era ritagliato dagli scarti di quello che è socialmente consentito.