C’è una vecchia storiella Zen che parla di un gatto:
Il maestro Nansen vide due monaci che discutevano a proposito di un gatto.
Nansen afferrò il gatto e disse: Se non dite qualcosa, lo ucciderò.
Nessuno parlò. Nansen tagliò il gatto in due pezzi.
Più tardi, Nansen raccontò il fatto al maestro Joshu.
Joshu levò i sandali di paglia, li mise in equilibrio sulla testa e uscì dalla stanza.
Nansen gli gridò dietro: Se fossi stato lì, il gatto sarebbe salvo.
Sono solito attribuire a questa storiella una morale in forma interrogativa, che ora rivolgo a voi lettori: dove stai dirigendo la tua vita?
Sembra la domanda di un moralista pronto a farvi un discorso paternalistico, quindi lontana dallo spirito zen, ma è ironico che la voce nella nostra testa parli spesso come il più severo accusatore delle nostre azioni. Continuiamo a porci la domanda, noi stessi, i più indefessi moralisti che conosceremo mai. Ma, per quanto inquietante possa essere, io credo che essa sia addirittura consolatoria: spesso la usiamo per alleggerirci, come il rito di un’espiazione periodica che serve solo a rimandare una domanda ben più importante. E quella domanda è: come mi giudico?
La prima è, a ben guardare, una domanda superficiale, che asseconda solo il bisogno di severità attraverso cui misuriamo, spesso a torto, la precisione e la penetrazione di un giudizio morale. Una tale severità di facciata è falsa e codarda. Serve solo a liberarci dall’ansia dell’esame di coscienza, senza portarlo davvero a termine. E dunque la prima domanda non potrà che farci appena scorticare la crosta. Non rivela che sintomi, e i sintomi sono sempre epistemicamente insufficienti, perché moltiplicano le cause possibili piuttosto che isolarle. Gli stessi sintomi possono essere causati da motivi diversi. Ecco perché una domanda più profonda sembra essere: come mi giudico? Perché ingrandisce il bersaglio, e rende più facile colpirlo. Ma anche più larga l’ombra che getta su di noi se non lo leviamo di mezzo.
Come mi giudico, non significa come mi giudico ora, in questo momento preciso, ma piuttosto “qual è il mio criterio?”.
In base a cosa scelgo le mie azioni, dirigo i miei interessi, evito amicizie e appago promesse? E soprattutto, in base a quale metro e quale aspettativa misuro i miei esiti.
Una domanda che tendiamo a sottovalutare, ricercando l’instabile approvazione altrui o a tradire, rifiutando di rispondere lucidamente e preferendo sostituire a una risposta da guadagnare con la ricerca, un’asprezza cinica a-prioristica che denuncia la paura di dipendere dall’approvazione altrui in cui si finisce così per ricadere. Da un lato possiamo scegliere di diventare campioni dell’auto-demolizione, la fazione di chi si auto commisera e fa della lamentela il surrogato di una rivolta; dall’altro, potremmo forse essere le vittime del narcisismo, quelli che conservano quel tanto di pragmatismo da tradirne il valore, e usarlo solo come un mezzo per un successo dogmatico.
Entrambi tradiscono lo stesso criterio.
Vogliono vincere.
Avere la meglio. Prevaricare, essere riconosciuti vincitori. In una discussione, imporre la propria prospettiva. Nel mondo, vedere il modello che sanno sfruttare meglio, vincere perché li assecondi. Non sto parlando di violenza. Parlo della nobile seduzione della retorica, il principio fondamentale della democrazia, la promessa che chiunque sia pronto a cambiare idea opportunamente sedotto dalle giuste parole. Un principio che segna davvero la fine di ogni violenza, ma che sostituendo l’incontrovertibilità della legge dell’acciaio e del sangue con l’arbitrio della seduzione della politica, lascia senza punti di riferimento. Il prezzo della democrazia è il caos.
Qual è il criterio? Da cosa mi faccio convincere? Come si vince il gioco del trono se non si può usare la spada?
Essere riconosciuti ci fa vincere il gioco del trono. L’unica regola è che qualcosa ha valore solo finché noi glielo diamo. Ecco perché conoscere un segreto darà molto più potere di qualsiasi scettro.
Il dramma del narcisista è tale perché lui non ne è a conoscenza, perché il narcisista confonde il negoziato arbitrario per l’attribuzione del significato, con la scoperta di un significato oggettivo nel mondo. Visto da fuori la sua convinzione è patetica perché infondata eppure ciecamente creduta. Il narcisista si trova al posto giusto al momento giusto, ma la sua vittoria, non porta con sé alcun merito se non quello del tempismo e della casualità di chi si trova ad assecondare un negoziato di cui non è a conoscenza e che spaccia per necessaria una contingenza. Per questo la prerogativa del narcisista è una cieca convinzione. La convinzione dell’illusione della necessità. La durezza del cinico esibizionista lo espone alla caduta e alla rovina. Come tutti i personaggi di Scorsese.
Qual è il dramma dei vittimisti invece? L’impotenza. Una frustrazione che sorge nel momento in cui si rendono conto di non poter vincere pur non desiderando altro che vincere, ribaltare tutto, affermarsi contro. Alla grottesca meritocrazia casuale dei narcisisti, i vittimisti sostituiscono un’idealismo adolescenziale spacciandolo per maturo eroismo.
Tutti si affanno a vincere.
Nessuno sa perché vuole vincere.
Una cecità connaturata al desiderio di vincere perché se sapessero cosa vogliono, non lo desidererebbero così ardendemente.
In un passo del Pendolo di Foucault, Eco rivela il fulcro concettuale del romanzo. Si chiede: qual è il segreto più insondabile di tutti? Risposta: un segreto vuoto. Un falso segreto. Il segreto che non v’era alcun segreto. La vittoria funziona come un segreto vuoto. C’è sempre un grimaldello per continuare a credere di poter andare più in profondità. Quale vittoria ci soddisferà? Nessuna perché le vorremo tutte. Ma chi può averle tutte, data la nostra mortalità? Ecco che sia l’idealista vittimista che il narcisista ingenuo si trovano d’accordo: la vera vittoria è l’immortalità.
Vincere significa vincere la morte.
Ecco perché un altro tratto che accomuna entrambi è la loro mortale serietà. Che sia la serietà della causa idealistica che sanziona ogni ironia come attacco, o la serietà ottusa del narcisista che confonde insulto e ironia, tutti tradiscono il loro stesso obiettivo immortale, vedono sfumare la loro vittoria, perché non sanno ridere e muoiono della loro serietà.
Al contrario, chi ride non può morire. Perché è già morto. Costui ha rinunciato alla spada, perché non vuole vincere. E non volendo vincere si è guadagnato la vita eterna, quella dell’istante presente, del disinteresse per il desiderio che ci proietta in avanti. Le domande e le rivalità, gli scontri e le competizioni appaino ridicoli a chi ride del mondo. La risata dell’immortale non è né amara né angosciata. Non è la risata del folle ma quella del bambino meravigliato. Non la risata della resa ma quella del disinteresse. Una prospettiva edonista e individualista, è vero.
Ma anche più dell’edonismo e più dell’individualismo. Perché persegue il piacere dei sensi tipico dell’edonista, ma al contrario di questi, per cui il piacere dei sensi implica il solipsismo (infatti, nessuno può provare esattamente quello che sto provando io con i miei sensi, qui e ora) il piacere è ottenuto attraverso la sublimazione dell’intelletto. Questo rende il piacere potenzialmente condiviso nell’atto della sua esternazione artistica, dell’impresa intellettuale che gli fa da contraltare. La più alacre impresa intellettuale implica il più estatico degli orgasmi. L’unica giustificazione che troverete alla vita è una giustificazione estetica. Estetica nel senso di artistica ma artistica nel senso di carnale. Un’estasi della carne che metta insieme infine segni e corpi, come in un eterno sesso con il mondo.
Persino i samurai, addestrati per uccidere, sono giunti alla conclusione che la massima dimostrazione delle proprie abilità è guadagnarsi la serenità di non doverle dimostrare a nessuno. Non esigere riconoscimento alcuno. La via della spada senza spada. La via della contraddizione. Non la contraddizione sensazionale e spettacolarizzata dell’angosciosa epica nichilista, ma quella della leggera liberazione sarcastica del nonsense.
Senza clamori. Il mondo finirà nell’increspatura di una risata beffarda. Non epicamente in uno scontro tra la vittoria e sconfitta.
Più che i miti delle origini, sono convinto che siano le storie della fine a strutturare le nostre aspettative e la nostra visione del mondo. Al posto dell’Apocalisse biblica, forse dovremmo pensare il racconto della fine come la storia del Gatto di Nansen.
Con una fine così, vi impegnereste a combattere?