Il senso delle immagini
Ogni medium ha la sua grammatica e il suo linguaggio. L’elemento minimo della grammatica del cinema è l’immagine. Prima ancora di essere prodotti che ascoltiamo, i film sono opere che vediamo, e che raccontano la loro storia attraverso le immagini. Non è un caso se ancora oggi i film muti siano estremamente intrattenenti. Al contrario, in molta parte del cinema contemporaneo prevale un affollamento discorsivo che fraintende la specificità del cinema: il cinema è simile alla poesia nella sua potenzialità sintetica: mostra tantissimo dicendo pochissimo. Questo è l’uso del cinema che ritengo più suggestivo. L’uso della voce fuori campo ad esempio è la negazione più esplicita di questo principio di economia narrativa. La voce fuori campo è l’anti cinema, perché il punto del cinema è riuscire a far comprendere o a suggerire allo spettatore quello che diresti a parole, ma usando le immagini. O usando il dialogo, ma comunque cercando di riprodurre l’illusione di una simmetria 1:1 tra realtà e rappresentazione. Per questo il cinema è anche il medium dove è più semplice sospendere l’incredulità, per la sua estrema passività di fruizione in confronto a medium quali la letteratura e il videogame che invece hanno un grado di interagibilità materiale con il supporto hardware attraverso cui si fruisce della storia (il libro, la console, il joypad ecc.).
Uno degli esempi migliori di questo principio di economia narrativa per immagini, si trova nell’ultimo film di Sorrentino.
Una scena nelle prime battute del film mostra un tipico pranzo italiano al sud, con tanto di famiglia allargata, malcelate insofferenze ed esplicite simpatie reciproche, un sottotesto ironico dei personaggi più intelligenti e reazioni infantili da parte dei più grossolani e ignoranti. Si passa dall’ironia conviviale all’ostilità, con la velocità caratteristica dei pranzi di famiglia. Un viaggio tra personaggi grotteschi, come il nuovo fidanzato di una delle zie del protagonista, Guido) e caricaturali, come la nonna di Guido, che si rifiuta di prendere parte al pranzo per “protesta” contro la famiglia, standosene in disparte mentre divora un’enorme burrata. La scena è perfetta. Mostra senza essere didascalica. Ma quello su cui voglio puntare l’attenzione è una scena nella scena che potrebbe passare inosservata a una prima visione. Questa, a partire dal secondo 0:46:
A un certo punto in questo quadro pittoresco quanto fedele e vivido del pranzo rituale meridionale, la madre di Guido per impressionare i commensali inizia a fare il giocoliere con delle arance, per altro simbolo della terra napoletana in cui la storia è ambientata. Non è un caso che ci sia questo riferimento ai frutti della terra di origine, visto che il film è in buona parte una riflessione sul proprio imprinting, sul senso delle proprie origini e sulla direzione che questa imprime al futuro di chi non riesce a capire chi è, come Guido, che sente di non comprendere la sua strada. Ma neanche questa simbologia è quello che mi interessa. Quello che mi interessa è unicamente quello che vediamo, nel senso più superficiale del termine, perché basta quello a impressionare e comprendere la raffinatezza con cui Sorrentino sta usando il medium. Il regista, con pochissimo sforzo e senza risultare forzato o didascalico, riesce a farci capire che la mamma di Guido è molto brava a giocare con le arance, perché questa sua bravura è riconosciuta da tutti come una sua peculiarità. Infatti, sono i bambini che si divertono sulle bici, che nella loro ingenua dolcezza, chiedono alla zia di fare il gioco delle arance, come se fosse una ricorrenza magica e piena di meraviglia. Inoltre il marito, cioè il padre di Guido, esclama meravigliato anche lui in quel caratteristico modo che usa la volgarità per esprimere affetto tra le persone che si conoscono bene: “ma cumme cazz fa’?”
Bastano letteralmente pochi secondi a gettare le basi di un racconto silenzioso quanto potente.
Infatti, più tardi nel film, lentamente scopriamo che il quadro iniziale di idillio familiare ha delle crepe profonde. Questa lentezza nella rivelazione della verità è un altro tratto che delinea la saggezza narrativa del film di Sorrentino, che non ha fretta di rivelare il suo tema, ma non per questo risulta noioso nelle sue sezioni preparatorie al colpo di scena. (In effetti, due rischi per ogni film sono o quello di rivelare tutto troppo in fretta, rendendo la narrazione didascalica e poco avvincente oppure quello opposto di risultare noiosissimo fino al punto del colpo di scena, che però essendo preparato male, non riscatta una preparazione scarsa).
Come dicevo, la famiglia di Guido è tutt’altro rispetto all’immagine che risulta nelle battute iniziali del film. Il padre di Guido ha un’amante e la madre di Guido sa tutto, ma cerca di mettere a tacere questa consapevolezza, fingendo che vada tutto bene. Eppure a un certo punto la situazione esplode, a seguito di una chiamata, a cui risponde la mamma di Guido, direttamente dall’amante del marito. L’esplosione di angoscia e di disperazione, quindi è tanto più potente quanto precisa era stata la sua dissimulazione fino a quel momento. Con un espediente tipico del film thriller, Sorrentino mette le carte in tavola, dopo aver portato la nostra attenzione su altro, distraendoci per colpirci più violentemente alle spalle.
A questo punto c’è il raccordo con la scena delle arance precedente. Dopo urla, pianti e angoscia emotiva, resa in modo molto crudo e senza retorica o melodramma patinato, per rendere al meglio la percezione che di questa disgregazione del tessuto familiare può avere l’adolescente Guido, Sorrentino ci mostra un scena, che dura pochissimo ma è estremamente significativa. La vediamo dalla prospettiva di Guido stesso, con la camera dietro la spalla di Guido, che apre la porta della camera da letto e vede la madre, che fino a poco prima stava gridando e piangendo, che si tranquillizza, mentre fa il giocoliere con le arance, in silenzio. Il montaggio stacca e ci mostra il volto di Guido, che capisce, come lo spettatore e con un’espressione sofferente per quella consapevolezza rimane immobile finché il fratello non lo porta a letto.
(Purtroppo non ho trovato nessuna clip su YouTube da inserire come riferimento).
Questa è la forza del cinema. Con due scene, senza che nessun personaggio abbia dovuto spiegare, senza che nessuna voce fuori campo abbia raccontato il motivo, noi capiamo l’abisso che vivono questi personaggi. E il livello di tridimensionalità e approfondimento psicologico dei personaggi che viene raggiunto in queste scene è estremo nonostante i personaggi non spiccichino una parola. Le immagini veicolano così tante informazioni già da sole, che ogni parola sarebbe di troppo, e un grande autore si riconosce dalla fiducia che dà al suo pubblico quando è sicuro della potenza evocativa delle sue scelte registiche. Ovviamente è un rischio. Non tutti coglieranno dettagli del genere, ma su chi li coglierà avrà un effetto enormemente più potente di quello che la didascalia avrebbe sul pubblico più ingenuo. L’asciuttezza narrativa della scena delle arance è da quando l’ho vista, l’archetipo della potenzialità comunicativa delle immagini. La commozione è data da due azioni combinate: la situazione nel suo complesso, con tutto quello che è stato mostrato prima di arrivare all’esplosione del dramma; ma anche dall’abilità nel comprimere tutte le informazioni necessarie a far scaturire quell’emozione, in poche immagini. Una commozione della commozione, quindi.
Questo è un esempio perfetto di grande uso del linguaggio cinematografico. E una caratteristica comune delle grandi opere è farci commuovere non solo per quello che mettono in scena, ma anche per come lo fanno. Per questo l’emozione che ci danno i capolavori è una delle più intense che possiamo provare e spiega il motivo per cui delle persone decidono di dedicare la propria esistenza all’approfondimento di queste opere o al tentativo di produrle loro stessi. Quando ho visto per la prima volta la scena delle arance in È stata la mano di Dio, mi sono commosso sia per l’empatia che provavo per la situazione e il dramma, ma anche perché ho pensato alla raffinatezza con cui si può usare il cinema. E la consapevolezza di un autore nell’uso dei suoi mezzi, è qualcosa che non ha niente a che fare con l’effetto drammatico interno alla narrazione, ma che può essere altrettanto commovente.