“Una promessa che la roccaforte del mondo era saldamente basata sull’ala di una fiaba”
(F.S. Fitzgerald, Il grande Gatsby)
“Il primo discorso che un’opera fa, lo fa attraverso il modo in cui è fatta.”
(U. Eco, Opera Aperta)
Nell’arte il contrario della stilizzazione non è l’assenza di stile. Il contrario della stilizzazione è il naturalismo. Si pensi ad esempio ai film di Wes Anderson: ogni elemento è messo sulla scena per ricordarci che stiamo vedendo un film girato da un autore, un film con uno stile ben preciso e riconoscibile proprio perché ci viene ricordato continuamente da esplicitamente quale sia questo stile, di quali artifici esso si serva. Inquadrature simmetriche, colori molto saturi e situazioni grottesche, sceneggiature surreali, uso dei Dolly shots (cioè la camera montata sui binari che segue in modo molto stabile la scena), rottura della quarta parete, narratori che raccontano la storia fuori campo (torna ancora una volta l’introduzione del doppio layer finzionale): tutte queste caratteristiche tecniche fanno sì che un film di Wes Anderson sia un film di Wes Anderson. Ma per comprendere la vera essenza della poetica di questo autore non basta elencare le caratteristiche che definiscono la sua autorialità. Dobbiamo chiederci perché l'autore ha deciso di definire la sua autorialità proprio in quei termini. Wes Anderson non vuole solo creare un film perfettamente confezionato, vuole ricordarci che quel film è stato perfettamente confezionato: si potrebbe dire che la visibilità della produzione cinematografica è parte integrante della poetica di Anderson, che la proceduralità dell’arte viene elevata a categoria estetica nella sua filmografia. In questo senso, la strada che conduce al risultato è importante quanto il risultato stesso, e Anderson decide di farla emergere tra le righe, di mostrarne il negativo in modo più esplicito e stilizzato di altri. Tuttavia questa visibilità della finzione non è il fine ultimo delle sue opere, il che rende la sua poetica il tentativo di superare lo spirito postmoderno che sembrerebbe definirne le intenzioni, distruggendolo tuttavia dall'interno.
In una famosa intervista del 1993 rilasciata per la Riview of Contemporary Fiction, David Foster Wallace ha definito così l’atmosfera di esaurimento della “Rivoluzione postmoderna” nelle arti (in special modo in letteratura):
“Questi ultimi anni dell’era postmoderna mi sono sembrati un po’ come quando sei alle superiori e i tuoi genitori partono e tu organizzi una festa. Chiami tutti i tuoi amici e organizzi questo selvaggio, disgustoso, favoloso party, e per un po’ va benissimo, è sfrenato e liberatorio, l’autorità parentale se ne è andata, è spodestata, il gatto è via e i topi gozzovigliano nel dionisiaco. Ma poi il tempo passa e il party si fa sempre più chiassoso, e le droghe finiscono, e nessuno ha soldi per comprarne altre, e le cose cominciano a rompersi o rovesciarsi, e ci sono bruciature di sigaretta sul sofà, e tu sei il padrone di casa, è anche casa tua, così, pian piano, cominci a desiderare che i tuoi genitori tornino e ristabiliscano un po’ di ordine, cazzo… Non è una similitudine perfetta, ma è come mi sento, è come sento la mia generazione di scrittori e intellettuali o qualunque cosa siano, sento che sono le tre del mattino e il sofà è bruciacchiato e qualcuno ha vomitato nel portaombrelli e noi vorremmo che la baldoria finisse. L’opera di parricidio compiuta dai fondatori del postmoderno è stata importante, ma il parricidio genera orfani, e nessuna baldoria può compensare il fatto che gli scrittori della mia età sono stati orfani letterari negli anni della loro formazione. Stiamo sperando che i genitori tornino, e chiaramente questa voglia ci mette a disagio, voglio dire: c’è qualcosa che non va in noi? Cosa siamo, delle mezze seghe? Non sarà che abbiamo bisogno di autorità e paletti? E poi arriva il disagio più acuto, quando lentamente ci rendiamo conto che in realtà i genitori non torneranno più – e che noi dovremo essere i genitori.”
La caratterizzazione stilistica del postmodernismo potrebbe essere definita esattamente come abbiamo definito lo stile cinematografico di Wes Anderson ovvero un continuo promemoria del fatto che stiamo assistendo a una finzione. Lo stile postmoderno consiste in una esasperazione così esacerbata dello stile stesso da far sì che esso assorba tutto il contenuto di un'opera. Nel postmodernismo lo stile è tutto il contenuto trasmettibile di un'opera: per questo esso è un'opera di scardinamento e di rottura rispetto alla tradizione precedente. Ma per questa stessa istanza rivoluzionaria nei confronti di quella sorta di ingenuità letteraria precedente è impossibile che il postmodernismo diventi lo stile mainstream senza tradirsi in modo irrimediabile. Eppure è quello che è successo: a un certo punto la voglia di rottura dell'ordine costituito è diventato ordine costituito e ciò che era rivoluzionario si è normalizzato assumendo il posto istituzionale contro cui era insorto. In quello stesso momento ha perso la sua portata rivoluzionaria diventato un esercizio di stile fino a sé stesso, una sorta di masturbazione intellettuale e ha portato a una epocale percezione di deresponsabilizzazione dell'intellettuale riguardo al ruolo morale della sua arte. Gli scrittori postmoderni sono diventati i ragazzi alla fine del party strafatti e nauseati, nel limbo dell'attesa di genitori che tuttavia non arriveranno mai, tesi tra il desiderio che qualcuno metta in ordine il salotto e la certezza che non saranno di certo loro a farlo. È sbagliato (ma comprensibile) che queste siano le principali critiche rivolte anche proprio a Wes Anderson, tuttavia io credo che le opere del regista americano non si possono ricapitolare nella poetica postmodernista. E questo per una ragione principale che, ovvero il rifiuto del dogma principale del post moderno: nelle opere di Anderson lo stile non assorbe mai completamente il contenuto ma piuttosto ne mette in moto la trama e ne costituisce la meraviglia. Ma tutta l'impalcatura stilistica indica qualcosa di più profondo che non riferirsi a sé stessa.
Come una Cattedrale Gotica non è solo una costruzione di contrappunto ma rimanda come immagine speculare alla grandezza di colui per cui essa è stata costruita, così il film di Anderson usano la stilizzazione esasperata per omaggiare l'arte di raccontare storie piuttosto che come mezzo per farne una parodia ironica e cinica e in questo movimento emotivo sta il senso del superamento del postmoderno di cui ho parlato prima. I film di Anderson creano una commistione unica e apparentemente contraddittoria tra fiabe e postmoderno: usano la meraviglia immaginifica delle prime e gli artefici decostruttivi e autoironici del secondo. Noi sappiamo sempre di star vedendo un film di Anderson perché è proprio l'autore a ricordarcelo continuamente sottraendo strutturalmente la possibilità di una sospensione dell'incredulità. Per quanto il soggetto e l’ambientazione dei suoi film, prese a livello meramente oggettivo, siano tipicamente realistiche nei film di Wes Anderson (un Hotel durante la seconda guerra mondiale, un accampamento di scout, un viaggio familiare in India, la storia di una famiglia con un padre assente ecc.) la loro messa in scena è volutamente surreale ed è da questo contrasto tra stile e soggetto che deriva lo spirito autoironico. Provate a confrontare un film mainstream come Il signore degli Anelli con Grand Budapest Hotel. Al contrario di quello che potrebbe risultare da una analisi superficiale, Il signore degli Anelli, risulterà molto più realistico di Grand Budapest Hotel, perché questo non risponde ai criteri di rigida coerenza interna a cui invece risponde il secondo. Non importa che rispetto alla realtà Il signore degli Anelli sia un’opera di fantasia: esso riesce a sospendere l’incredulità proprio grazie alla serietà con cui prende la sua forza finzionale, realizzata attraverso il naturalismo degli elementi narrativi. Il Signore degli Anelli cerca di creare una coerenza interna all'opera partendo da presupposti che una volta accettati danno forma a un realismo interno all'opera che è sostenuto dal naturalismo della recitazione, dagli elementi scenici, dalle inquadrature ecc. In Grand Budapest Hotel, al contrario, abbiamo il ribaltamento di questo approccio naturalistico: tutto, dalle inquadrature alla recitazione, punta l'attenzione sulla presenza di una camera e un regista, di attori, di oggetti di scena. Questo non significa che lo spettatore perda il tuo coinvolgimento emotivo. Anzi Anderson ha dimostrato che è possibile rompere la sospensione dell'incredulità, prendersi poco sul serio ed essere consapevoli della finzione, senza far svanire la meraviglia di quella finzione. Ha dimostrato che la forza della storia è molto più potente di come sarebbe se l'unico motivo per cui ci appassioniamo ad essa fosse cedendo la nostra consapevolezza che quella sia una finzione. Al contrario, ha mostrato che anche e soprattutto lo sforzo riflessivo e consapevole sull'opera costituisce il piacere dell'esperienza mentre la si fruisce. Questo perché la poetica di Wes Anderson non si riduce a una mera espressione di consapevolezza della finzione. Il fine del dell'opera di Anderson non è rivelare la finzione ma esaltarla, non è mostrare il meccanismo del cinema, o meglio non è solo questo, perché la visibilità della finzione è solo il primo passo per esprimere l'amore sincero per quella meravigliosa finzione. Il cinema di Anderson dunque è un'ode al cinema e l'espressione del suo amore per i film, per le storie, il riconoscimento che quelle storie hanno una funzione narrativa epica e salvifica: il cinema si salva davvero la vita nella vita reale, come accade ripetutamente ai personaggi delle sue opere che trovano sempre una dimensione di salvezza proprio nei rapporti tra di loro delle relazioni umane, in un mondo che tutto intorno cade in rovina e fa sentire l’incedere della sua progressiva aridità, un mondo in cui la meraviglia va scomparendo e in cui rimaniamo senza illusioni. Questo è il fine morale del cinema di Anderson che mi fa dire che esso è il superamento del cinismo tipico del postmoderno, una presa di responsabilità di una nuova sincerità verso una umanità altrimenti perduta e sopraffatta dalla cenere dell’Abbazia che arde insieme alla sua biblioteca e alla sua meraviglia passata e ormai perduta. C'è sempre un momento in cui rarefazione e densità narrativa si sovrappongono nei suoi film, che sembra cambiare le sorti della storia, sia quella con la s minuscola quella con la s maiuscola: una scena che sembra far convergere tutto il film verso se stessa e di solito l’espressione di un affetto disinteressato tra due personaggi che nel bel mezzo di avvenimenti assurdi e surreali riconoscono la loro vicinanza, unico ordine profondamente sensato in un mondo che è solo formalmente ordinato secondo inquadrature simmetriche ma che non è epistemicamente ordinato e che per il resto è dominato dall’assurdo. L’affetto di Zero e Monsieur Gustave, i due protagonisti di Grand Budapest Hotel, ne è un esempio lampante.
La discussione sulla cinematografia di Anderson ci permette di tematizzare un problema fondamentale di questo libro: in che rapporto stanno lo stile e l’oggetto rappresentato? La forma è un ostacolo al contenuto o ne è parte integrante? Esiste un mondo di dati invarianti rispetto allo stile che scegliamo per rappresentarlo? Ogni espressione è stilizzata e marcare la mano sullo stile, serve proprio a ricordarci la sua rilevanza, ecco perché che piaccia o meno Anderson ha qualcosa di rilevante da dire sul rapporto tra realtà e linguaggio (mi pare particolarmente illuminante qui l’espressione di Adorno che descriveva lo stile come “contenuto sedimentato”). Saper usare lo stile ed elevarlo a categoria estetica, integrandolo nella propria poetica, rendendolo una funzione della storia che si sta raccontando, sono caratteristiche imprescindibili delle grandi opere. Sembra che lo stile, e in questo senso il linguaggio quotidiano, che rappresenta una sorta di grado zero stilistico, siano mezzi di canalizzazione di qualcosa che altrimenti rimarrebbe inespresso piuttosto che deformazioni di una realtà fissa che non aspetta altro che essere registrata in categorie che non le fanno violenza. In un certo senso ogni realtà registrata da noi porta con sé anche lo schema in negativo del modo che usiamo per descriverla. La narrativa, sia essa letteraria o cinematografica, ci dimostra che nello spazio semiotico delle storie dove possiamo evitare di dare peso alla realtà e concentrarci solo sul filtro di una sua possibile descrizione, possiamo riscattare una meraviglia che in natura non potrà mai esistere. Non so se questa speranza valga come una consolazione o come un monito.
“Francamente penso che il suo mondo fosse svanito molto prima che lui vi entrasse, ma devo dire che lui vi sostenne l'illusione con grazia magistrale.”
(Grand Budapest Hotel)