La decadenza di Hollywood, la religione di Shakespeare e il bello di Eco
Tre cose che troverete insieme solo qui
Sto leggendo molti libri ultimamente, dopo la pausa natalizia. Faccio un veloce recap delle suggestioni che mi stanno ispirando e delle critiche che mi costringono a fare. In breve, un po’ di consigli e sconsigli di lettura.
Hollywood Babilonia, di Anger
Il decadentismo, dal punto di vista poetico è sempre stato estremamente affascinante per me. Le vestigia di uno splendore ormai dimenticato di cui riecheggia solo la caduta è un’immagine poeticamente potentissima e infatti è usata come fulcro nella produzione di moltissimi artisti. Mi suggestiona così tanto perché all’immagine della decadenza di solito si accompagna il sentimento della nostalgia amara, di un tempo perduto per sempre. I paesaggi decadenti presuppongono la grandezza e la negano in una dimostrazione imperterrita della frustrazione dei nostri desideri. Come diceva Poe, è la malinconia il sentimento artistico per eccellenza. E la sublimazione della malinconia è il tema della morte della bellezza. Ecco perché amo Dark Souls, Il signore degli Anelli Borges ed Eliot: sono tutti scrittori di mondi crepuscolari, mondi in rovina, secolari per necessità, mondi che soffrono la perdita forzata della sacralità passata e in questo modo la criticano. Leggere Hollywood Babilonia, di Anger, è un viaggio in un mondo del genere. L’autore traccia un ritratto della nascente industria del cinema americano, che sceglie Hollywood come viale della sua fibrillante ascesa e della scia di scandali e di violenze di cui si nutre dietro le quinte il successo. Anger parla di Hollywood e del suo pantheon, delle sue stelle, della sacralizzazione dogmatica e fanatica degli attori, della rigidità della morale inquisitoria e della colpevolizzazione pubblica delle vite private. Offre si Hollywood dagli anni ‘20 agli anni ‘60, un’immagine come di una Babilonia idolatra, una mecca dell’adorazione religiosa, un Pantheon greco di divinità capricciose e nevrotiche, a cui il pubblico era veloce tanto nel tributare onori quanto nel sottrarli. Il risultato dell’analisi giornalistico-satirica di Anger è impietoso e amaro. Una risata macabra sulle scene del crimine di delitti che sono la fantasia disturbata di chi viveva nel mondo di mezzo tra immaginazione e realtà poteva concepire. Quello che emerge dal racconto è la descrizione di un’adolescenza sognante ed escapista, in cui la maggior parte dei divi di Hollywood era confezionato apposta per essere un modello per le masse, dai grandi studios, senza avere la minima consapevolezza del proprio ruolo morale. In fin dei conti tutto il libro racconta proprio della progressiva scoperta della discrasia tra il supposto ruolo di modello morale e l’individualità piuttosto adolescenziale dei divi di Hollywood, che vivevano l’idillio del sogno d’oro, su cui incombeva minacciosa l’ombra delle lettere enormi della scritta sulla collina: HOLLYWOODLAND. Un ombra che alcuni riuscivano a dimenticare solo arrampicandosi su quella tredicesima lettera e buttandosi di sotto. Il simbolo di un beffardo contrappasso.
Shakespeare. L’invenzione dell’uomo, di Bloom
Bloom è probabilmente il critico letterario più famoso della seconda metà del ‘900. Famoso però non vuol dire importante. Il più importante è per me Umberto Eco, ad esempio, di cui Bloom rappresenta la nemesi più strutturata ed emblematica. Eco ha avuto tanti oppositori, ma nessuno così chiaro e lucido nell’espressione della sua posizione come Bloom. In questo, i due si somigliano, e questo li rende entrambi dei punti di riferimento, per la loro abilità nella chiarezza delle idee e nell’accessibilità argomentativa e stilistica dei loro scritti. Per dire, non si sta parlando di Deleuze o di Foucault che nascondono i meccanismi delle loro argomentazioni sull’estetica.
Non so se Bloom ed Eco si conoscessero o se fossero consapevoli della differenza che divide le loro idee, ma a un lettore di entrambi risulta chiaro. L’atteggiamento di Bloom verso la letteratura e l’opera di Shakespeare in particolare, potrebbe essere descritto come religione laica. Bloom mostra l’opera del Bardo come un sostituto della Bibbia nella creazione della coscienza collettiva e individuale degli esseri umani e gli attribuisce un ruolo sacrale all’interno della cultura. Parla della letteratura in termini religiosi, come se essa avesse sostituito la fede in Dio con qualcosa di meno pretenzioso, ma comunque fondamentale nell’orientamento delle nostre vite. Il sotto testo presupposto in questo argomento è che abbiamo sempre bisogno di credere in qualcosa, e una volta che Dio è morto, dobbiamo pur venerare qualcos’altro, qualcosa che nasce dall’uomo, questa volta, ma che comunque lo eccede. Bloom ricorre spesso a questa immagine dell’eccesso dei personaggi shakespereani nei confronti del lettore e delle nostre personalità. L’opera di Shakespeare è sempre di più e rimane in certa misura avvolta nel mistero, continuando a ispirare e a influenzarci proprio per le parti che rimangono oscure e insolute o incomprese. Ciò che assicura l’influenza di un’opera è dunque, per Bloom, la sua capacità di resistenza all’erosione razionale e analitica della critica.
A questa posizione religiosa, si oppone il pragmatismo critico di Eco, per cui un personaggio si riduce ad essere delle parole scritte su una pagina, senza misteri protetti da un’aura sacrale e religiosa. I meccanismi attraverso cui opera un testo o la costruzione di un personaggio possono essere analizzati e commentati, interpretati da tanti punti di vista e analizzati. Una volta che dio è morto, non abbiamo bisogno di rimpiazzarlo con la letteratura. Possiamo proseguire la nostra vita senza adorare dogmaticamente alcunché, prendendo la letteratura come una grande creazione umana, ma senza cadere nella fallacia dell’idolatria degli autori o delle opere. Sono belle e rendono la vita migliore, ma Shakespeare era un essere umano come tutti gli altri, e le sue opere non sono sacre. Inoltre, all’immagine del mistero e dell’oscurità insolubile delle opere, da cui esse trarrebbero il loro fascino, Eco oppone un immagine di una chiarezza diffusa. Le opere continuano a ispirare e suggestionare, non perché ci sono delle parti di esse che sono resistenti intrinsecamente all’analisi razionale, ma perché ci sono tante analisi razionali possibili su di esse. Piuttosto che oscure, le opere diventano sempre più illuminate e diffusamente illuminate nelle loro parti e nei loro meccanismi narrativi. Il bello di Eco (e in questo è simile a Dennett e Wittgenstein), come di tutti i pragmatisti, è questo: mostra come non ci sia bisogno del mistero per preservare la bellezza, che la consapevolezza del meccanismo per cui amiamo Shakespeare non farà diminuire il nostro amore. Mostra che si può essere felici anche senza adorare niente, senza credere dogmaticamente in una salvezza risolutiva e definitiva, da trovare di volta in volta in dio, in Amleto o nella cultura. Dobbiamo guadagnarci non la salvezza ma la felicità, di volta in volta, senza formule assolute, e semplicemente le opere d’arte sono dei bei momenti nella nostra vita. Ma il punto decisivo mostrato da Eco, è che questo non è affatto poco, è abbastanza. Ed è anche il massimo.
Quindi dobbiamo godercelo. Finché possiamo. E anche questo è un po’ decadente come concetto, ma è il punto in cui la decadenza incontra dall’altro lato il successo, e la morte nobilita la vita.