Cerchi…
Rust, il protagonista della prima stagione di True Detective, durante l’interrogatorio a cui viene sottoposto sotto forma di colloquio (anche se sarebbe più giusto pensarlo come interrogatorio ai danni dei due agenti piuttosto che il contrario) dice che il tempo è un cerchio piatto. True Detective è costruita su personaggi che si muovono tra l’ambizione cosmologica del significato e il proposito pratico della garanzia della giustizia, quindi è difficile inquadrare la frase di Rust in uno solo dei due schemi narrativi: a prima vista sembra suggerirci una visione metafisica della realtà e del tempo. Ma il punto della serie di Pizzolatto è che tra l’ambizione cosmologica del significato e il proposito pratico della giustizia terrena c’è uno scarto incolmabile, uno scarto da cui deriva l’angoscia del vero detective. La serie parla del dramma di vivere quello scarto, di sbirciare tra le crepe della cicatrice infettata dal male. In quel dramma si annida il significato delle parole di Rust: non un dilemma metafisico ma uno etico. Il tempo è un cerchio piatto perché il male rifluisce senza sosta nello stesso punto, nella secca dove vanno a finire i detriti della vite distrutte dei bambini rapiti e uccisi, stuprati e umiliati. Se il tempo è un cerchio piatto, qual è lo scopo del detective? Difronte all’inequivocabile enormità del male, talmente grande da ripiegarsi su di sé e diventare ciclico, cosa può il detective, che a malapena tappa i buchi di una rete di cui non conosce né trama né ordito?
e catene
Alla fine di Incendies (il terzo film di Villeneuve è uno di quei rari casi in cui la versione italiana del titolo è meglio di quella originale: “La donna che canta”) la madre, protagonista al passato nel film, si rivolge ai due figli, a cui ha affidato la missione di trovare il fratello e il padre. Alla fine della quest, innesto di fiaba in un film estremamente crudo, che contribuisce a renderlo unico, i due fratelli si sono guadagnati la verità, che qui funziona come oggetto del desiderio, altro innesto fiabesco, risemantizzato nella luce piatta ma equa di un imprecisato paese del Nord Africa in guerra. Nella lettera in cui la Donna che canta rivela la verità ai suoi due figli gemelli, chiede loro di spezzare la catena dell’odio, quella che lei non è riuscita a spezzare ma che ha contribuito a perpetrare, uccidendo uno dei responsabili della situazione di instabilità di cui lei è vittima. Di odio in odio, di male in male, la via che segue la protagonista è segnata da una sequenza di segnali stradali che conducono alla follia: stupro, esilio, morte dell’amato, separazione dai figli per due volte, omicidio, fuga, prigionia. La catena dell’odio si compone di anelli che creano la necessità del successivo, implorandone la vendetta. E così anche la Donna che canta compie il male per ripagare il male, ma si affida ai suoi figli per rompere quella promessa di morte.
La grammatica del campo lungo
Queste due immagini, quella del tempo come cerchio piatto e quella del male come catena di necessità, sono omofone nelle testa dello spettatore. Sono delle metafore che mettono insieme due cose che solitamente insieme non stanno in automatico e che perciò risultano arricchite l’un l’altra, come se per la prima volta mostrassero la loro faccia alla luce del sole: tempo e male. L’attributo effettivo del male, in modo stranamente simile all’effetto che fa l’amore, è quello di fermare il tempo attraverso la ripetizione dell’identico. Questa metafora, per quanto potente, è ancora solo una metafora letteraria. Non basta far parlare di un concetto i personaggi per renderla saliente e significativa. La “catena del male”, il “cerchio piatto del tempo”, devono essere sostanziate da intuizioni visive se siamo al cinema. Quindi smontiamo questi due concetti e vediamo come vengono messi in scena.
La ciclicità del tempo piatto del male è quella di un futuro soffocato: il male ha come effetto l’eternità del presente in cui viene perpetrato, l’assenza del futuro per chi ne è vittima, per sempre segnata dal trauma del male, e della futuribilità del male stesso del carnefice, che se compie il male una volta ha la garanzia di poterlo rifare. Finché non uccidi non sai di poter davvero uccidere, ma dopo, che differenza fa?
Il tema del tempo ciclico è difficile da rendere visivamente, ma essendo qui al cinema, da queste storie è richiesta un’intuizione visiva, che accenda il fuoco alimentato dal pagliericcio verbale dei dialoghi dei personaggi. Serve una scintilla visiva. Arrival, un altro film di Villeneuve che costruisce la sua storia sui due temi del male (in questo caso non un male violento e intenzionale ma imparziale e “casuale”) e del tempo circolare, usa bene l’immaginario visivo della scrittura aliena.
In Prisoners e Sicario è la pura sceneggiatura a costruire il peso morale e metafisico della circolarità incatenata del male e della vendetta. Anche in Incendies, la sceneggiatura, gli eventi in sé, parlano tutti della circolarità del male, innestata addirittura a livello genetico nel film (in modo simile a come viene suggerita la circolarità del male che si auto-perpetra in OldBoy).
Ma quello che mi interessa, oltre al pagliericcio verbale e alla struttura degli eventi, sono le marche visive che denunciano l’ineludibile circolarità del male. E il modo in cui a livello visivo, Villeneuve costruisce un contraltare scenografico della circolarità del male ha del paradossale: non con un cerchio, non con un movimento di macchina che ruota, né costruendo composizioni ad anello a livello di sceneggiatura (le inquadrature finali e iniziali non si richiamano a vicenda nei suoi film). Bensì. Piatti campi lunghissimi, orizzontali e sconfinati. Risultato? Non apertura degli orizzonti, possibilità e ambizione, come potremmo aspettarci da una scelta registica simile. Ma stagnazione, paludoso deserto di sabbia in cui il tempo è fermo e gli insetti che brulicano sono solo pigro rimestio dell’identico, permutazione variabile dello stesso materiale di base, così rimaneggiato da essere ormai sabbioso e intangibile. Quindi inarrestabile.
Non sorprende che Villeneuve sia un regista così desertico nella rappresentazione paesaggistica dell’emozione della desolazione del male. Non sorprende che proprio Villeneuve sia il regista di Dune. Proprio Dune è l’esempio più eclatante ed enfatico dell’utilizzo del campo lungo desertico di Villeneuve, perché aiutato dall’epica che lo sostiene riesce a mitizzare i temi ricorrenti della sua poetica: il dilemma di fare il bene a fronte di una conoscenza che rende necessario compiere il male. Esiste una causa che giustifichi il male? E se nel tentativo di discolparsi o fare il bene si incorre nella stessa follia che si denuncia a cosa sarà valso conoscere? Questa domanda verbalizzata è tanto più difficile da tradurre in una strategia visiva che veicoli l’emozione che provoca la domanda, quanto più la domanda è raffinata e sottile. Villeneuve gioca in questo caso con i contrasti: la conoscenza provoca apertura delle possibilità, ma paradossalmente le possibilità di una conoscenza tanto vasta sono angoscianti perché tutte ugualmente desolanti. Ecco che viene in soccorso il campo lungo, che suscita a livello pre riflessivo un senso di schiacciamento e compressione, più che di distensione, come se fosse uno spazio chiuso e claustrofobico, da cui è impossibile fuggire, in cui è impossibile trovare riparo e nascondiglio. La conoscenza espone alla luce equa del deserto. Difficile da sopportare perché eguaglia qualsiasi cosa a qualsiasi altra. Questa dinamica è ripresa in tutti i film di Villeneuve: c’è qualcuno che sa più degli altri personaggi, e che cerca di tenere nascosta quella conoscenza conoscendone i rischi.
La madre in Incendies, Benicio del Toro in Sicario, le Benegesserit in Dune, i rapitori in Prisoners e così via. La conoscenza rende il compimento del male più sopportabile ma allo stesso tempo robotico e automatizzato. Una imparzialità che traspare dalla piattezza paesaggistica della messa in scena dei film del regista. In Dune - Parte 2 il cambio di passo della narrazione e del personaggio di Paul Atreides dopo aver bevuto l’Acqua della Vita è emblematico. Dalla dimensione orizzontale di amicizia con i Fremen, dal rifiuto della strumentalizzazione del dogmatismo fideistico, Paul passa ad essere un calcolatore per cui la religione diventa strumento di manipolazione di massa.
Le risposte discorsive ai dilemmi morali posti dai personaggi di Villeneuve , o almeno le tracce da seguire nel ragionamento della poetica del regista, possono essere trovate nelle sceneggiature di Villeneuve, ma ciò che è sorprendente è l’atmosfera non verbale e puramente visiva che caratterizza i film del regista canadese, talmente specifica e sostanziale che i momenti migliori dei suoi migliori film sono muti, o ricorrono alla prosa basilare del cinema, usando la grammatica ridotta all’osso del suono e dell’inquadratura per forzare la mano dell’originalità. Come nel caso della reazione della sorella in Incendies nel momento della rivelazione.
Villeneuve non è l’unico ad intuire la potenza paradossale della chiusura emotiva che può dare un campo lungo. Anche True Detective usa il campo lungo con la stessa ambizione visiva: schiacciare lo spettatore sotto il peso della possibilità del male, mostrando tutti i posti dove esso potrà ancora continuare a prosperare. La geografia dei setting delle storie assume così una grande rilevanza poetica. La Louisiana e il deserto di Villeneuve sono due facce della stessa medaglia.
Ma è possibile raggiungere lo stesso effetto anche passando attraverso tecniche opposte. Il bello del cinema è che non c’è mai un’unica strada per suggerire un’emozione, e che ogni strada suggerirà un’emozione dalla sfumatura diversa. Park Chan-wook, ad esempio, nel succitato OldBoy, decide di lavorare di fino su scala ridotta, ottenendo lo stesso effetto traumatico per lo spettatore. In OldBoy lavora sui dettagli e gli indizi che dissemina lungo la durata del film, come i pattern viola dell’ombrello dell’antagonista, e le ali che Oh Dae-su regala alla figlia all’inizio del film. Così la scena più potente a livello emotivo del film non è una scena dialogata in cui si espongono le ragioni della vendetta, ma una semplice inquadratura silenziosa, che veicola tanto più significato quanto il suo significato è passivo.
Il silenzio parla.