Chiamatemi Ismaele. Direi così se dovessi scrivere Moby Dick, se fossi Melville. Ah, direte voi, il tipico incipit postmoderno, la citazione, il rimescolamento dei linguaggi, l’implosione dei generi, l’ironia cinica, la trasvalutazione degli stili. Può darsi, direi io. Può darsi. Forse era solo che non sapevo cosa scrivere, e cosa volete scriva un giovane ben istruito con delle mire da scrittore, cosa volete che citi uno che crede nella citazione, se non il libro che è un generatore di citazioni, che è una matrice di citazioni proprio perché è a sua volta una immensa citazione alla vita. No, direte voi, Moby Dick, è una immensa citazione alla Bibbia. Appunto, vi risponderei, proprio perché Moby Dick è una citazione della vita, allora è una citazione della Bibbia. A volte penso davvero che non solo Dio ma nemmeno l’uomo esisteva prima della Bibbia. Non è stato Dio a creare il mondo, è stato un libro. Non a caso ci è finito anche dio dentro. Potrei scrivere un libro solo di citazioni. Intendo un libro fatto solo di citazioni consapevoli, perché comunque anche se non lo volessi starei citando qualcuno, anche se non lo sapessi starei plagiando Melville, Allen, la Bibbia, Borges e Alice nel paese delle meraviglie. Esistono due tipi di citazioni: quelle che sanno di esserlo e quelle inconsapevoli. Ed esiste un solo modo di parlare: citare. Un artista è solo un bravo incollatore di pezzi che sono sempre gli stessi. Non esiste creazione spontanea. È solo tutta una immensa citazione di un'altra immensa citazione. Segni che parlano di altri segni. E non troverete nessuna profondità, per quanto scaverete. Non c’è un’anima, non c’è nessuna essenza, non c’è l’illuminazione, l’ispirazione, non c’è la finale e definitiva originalità, guadagnata una volta e per sempre. Ma sempre e solo altri segni che parlano di altri segni, un Aleph infinito che non contiene sé stesso, e che per questo difetto di inclusività, assicura che ci sarà sempre un segno +1, all’infinito, nel tentativo di esaurirli tutti, essi si moltiplicheranno. Siamo segni, siamo superficie, anche i nostri silenzi lo sono, anche le nostre profondità, i nostri abissi, le nostre sottili fughe nell’inconscio non sono che fughe per immagini. E indovinate un po’ cosa sono le immagini se non altri segni ancora? La storia della letteratura, ma potremmo dire la storia in generale, per il motivo stesso che la storia, in quanto ricostruzione della storia vera, che pure da qualche parte esiste, l’abbiamo inventata noi, è la storia di alcune metafore di successo. E quest’ultima frase non è che una di quelle metafore. Saremo stanchi di tutte le citazioni un giorno? La risposta io credo, la troveremo girandoci indietro e guardando. Se fosse così perché non dovrebbe già essere successo? Solo perché ora tutti sappiamo di stare citando? Ci siamo risvegliati ora dall’innocenza, dall’ingenuità romantica dell’artista e ora tutto andrà in malora? Non so se credere così denunci più una sfiducia nell’arte o nell’essere umano. Ma io non voglio essere responsabile né di una dell’altra. Andrà come è sempre andata, per frammenti, segni, schegge di frammenti di segni. Qua e là. Rimessi in giro per i libri, per i film, per i videogiochi ora, di cui parliamo come se fosse roba nuova. In pasto al meccanismo affinato della selezione della bellezza artistica. La figata dell’esistenza, è che ogni generazione ha il privilegio (o la responsabilità) di poter dimostrare che basta una sola vita d’uomo per esaurire tutta la storia fino a quel momento, perché dalla storia che esauriamo nella nostra vita abbiamo espunto il faticoso lavorio del tentativo e dell’errore. Anche il fallimento è stato riassorbito in un simbolo, anche l’inceppo è diventato parte della storia che impariamo, ma senza la durata dell’errore e del fallimento, ci troviamo ad avere per le mani solo il risultato finale, che nel caso dell’errore è tanto raffinato e levigato quanto un’opera d’arte di successo. La forza dell’arte è che riassorbe dentro di sé potenzialmente qualsiasi cosa. Anche il cimitero silenzioso di chi non ce l’ha fatta diventa rumoroso sulle pagine di un libro. È vero l’arte serve a dare voce a chi non ha voce. Ma non è che sia un gesto nobile dell’artista, un dovere morale, un eroico sacrificio per gli oppressi. È semplicemente pragmatismo. L’arte non ha scelta, deve drammatizzare anche il silenzio. non si esce dal linguaggio. Perché l’arte drammatizzerà anche il tentativo folle della fuga dal linguaggio. Questa discrasia, ancora e ancora ribadita da quello stesso araldo che pure vorremmo uccidere ma che accresce la potenza della sua proclamazione quanto più aumenta la nostra voglia di sangue, questa angosciosa supremazia della nostra natura semiotica sulla nostra natura fisica, è il nostro tormento. Siamo in un limbo. Soli, a metà tra esseri divini e animali, ma non siamo né gli uni né gli altri, e non possiamo nemmeno dire di esserci ritagliati il nostro spazio da noi, scegliendocelo con cura, perché questo spazio dopo tutto ci è stato assegnato. Non siamo del tutto esseri fisici, perché arriviamo alla realtà attraverso segni. E pure ci tagliamo, e la realtà ci ferisce, letteralmente. E pure io dico che essa mi ha ferito. Questa distanza sia dalla pura fisicità che pure ci ricorda la nostra fallibilità e il nostro limite inferiore sia dalla totale mancanza di vincoli che pure in qualche modo intuiamo grazie all’immaginazione di cui il linguaggio ci dota, è la nostra condanna. Sappiamo sempre troppo e troppo poco, siamo sempre troppo forti e troppo deboli. Siamo mortali ma immaginiamo l’immortalità e immaginiamo l’immortalità ma siamo mortali. La fatica del non cadere né dalla parte del mutismo degli animali né dalle parti dei voli metafisici degli dei è la fatica dell’umanità e dell’umanista. Dello scienziato. Quella faticosa, grigia e malinconica consapevolezza della dipartita della magia elfica che è la parabola della mitologia Tolkieniana. Quando il mondo nasce, ha già cominciato ad appassire, il momento migliore è quando esso ancora non esiste. Dal momento che esiste, esso inizia a morirne. Quando nasce è già pronto a morire. Cicli su cicli dello stesso movimento verso la secolarizzazione fanno procedere il ciclo unico che è la risultante di tutti i cicli successivi, verso una progressiva morte, una secolarizzazione della secolarizzazione, una autoironia talmente autoironica da consentirci quei momenti davvero intimi di reciproca pietà, come quella di Bilbo per Gollum, come quella di Sisifo, come quella di Adso prostrato in una terra desolata di nevi alla ricerca di Dio, come quella di Mario Incandenza alla Enfield Tennis Academy e di Don Gatley alla Ennet House, come quella di Piton che ama ancora Lily senza pretendere riconoscimenti, come quella di Ismaele che racconta la storia, che sopravvive per raccontare la storia, la pietà della telecamera alla fine di Citizen Kane. La pietà. Silenziosa e fugace.
Eppure c’è.