Uno dei fraintendimenti più clamorosi e superficiali quando si tratta di adattare una storia da un medium all’altro è credere nell’isomorfismo. L’isomorfismo è la fiducia che ciò che funziona efficacemente per raccontare la storia con un determinato medium, funzionerà anche quando usiamo un altra forma d’arte per raccontarla. L’esempio più classico sono gli adattamenti da letteratura a cinema, che si può dire rappresentano una tendenza fondamentale nella storia del cinema tout court, e che devono essere analizzati nel dettaglio se si vuole avere una visione seria del medium cinematografico. Anche perché l’approccio comparativo permette di far emergere dettagli e unicità che senza il confronto in positivo o negativo con altri medium, passerebbero inosservati.
Ogni medium ha delle regole. Questa è un’affermazione altamente problematica, per la pretesa oggettività che presuppone in un ambito nel quale è quanto meno infantile credere che esista qualcosa di anche lontanamente simile all’oggettività delle scienze naturali. Eppure è un punto di partenza irrinunciabile, pragmaticamente, per quanto epistemicamente problematico. Cerchiamo di complicare questo punto di partenza per renderlo più accettabile, quindi.
La difficoltà del tema dipende dal fatto, credo, che c’è una profonda asimmetria tra il processo di apprendimento di certe regole e il processo di applicazione concreta delle stesse. In questo senso potremmo già azzardare uno sguardo più completo dicendo che ogni medium ha delle regole che sono taciute quanto basta perché all’interno del medium ci sia abbastanza libertà da violarle. è interessante notare che le regole di cui parlo sono quasi sempre la sedimentazione di usi comuni, che emergono quindi a posteriori, da un processo di tentativi ed errori che ha molto dell’improvvisazione e che è possibile osservare soprattutto in medium giovani come quello del cinema e ancor più in quello videoludico. Non è un caso che i manuali di game design o di regia e sceneggiatura nascano quando il medium raggiunge una certa maturità storica, e non prima. Non ho notizie di un medium la cui nascita sia stata pianificata e le cui regole siano state fissate prima ancora della produzione concreta. Il processo assomiglia più a una sorta di scoperta di espedienti che funzionano meglio di altri. Le regole, quindi, più che delle norme i sindacabili da seguire a priori, attestano semplicemente l’efficacia evolutiva di certi usi, la sopravvivenza dei quali dimostra che almeno per un certo periodo questi usi sono stati riconosciuti in quanto al loro valore presso il pubblico, o per il loro valore di economia produttiva (si pensi al massiccio uso recente della CGI nei blockbuster al posto delle riprese classiche) ecc.
Del resto, se bastasse seguire una ricetta per creare una buona opera, l’arte non avrebbe il valore che noi le attribuiamo di solito nella misura in cui sarebbe altamente riproducibile e prevedibile e noi invece chiamiamo arte delle opere che non erano prevedibili in un senso triviale, ma che traggono la loro unicità della percezione della loro informatività. Nella teoria dell’informazione il grado di informatività di un messaggio è inversamente proporzionale alla sua probabilità. Più è probabile, meno è informativo. E viceversa. In realtà è un principio abbastanza intuitivo. Se buttiamo una serie di lettere in aria è molto probabile che non otterremmo l’equivalente della Divina Commedia.
Inoltre la figura dell’artista è associata, soprattutto nell’immaginario di matrice romantica, a un disprezzo aristocratico nei confronti delle regole e delle imposizioni della tradizione. Questa apparente sovversione, intrinseca alla vera arte, almeno in questa forma estremamente brutale e grossolana, è un mito romantico. A ben guardare, la maggior parte degli artisti, in ogni medium, prima ancora di essere dei sovversivi, è stata un’attenta studiosa e riproduttore della tradizione. Il rapporto dell’arte con il proprio passato è del resto uno dei topos più importanti dell’arte stessa: in quanto essa è rete di rimandi intertestuali non è mai davvero possibile rinnegare il passato senza riaffermarlo in senso negativo. Ogni brutale negazione ne rappresenterà in effetti, una quanto mai comica e involontaria, glorificazione. Questa tendenza all’intertestualità, viene considerata da molti critici come un segno dei nostri tempi, che arriverebbe quasi a caratterizzare la nostra epoca. Si dice spesso che la nostra è un’epoca postmoderna. Ma come scrive Eco nelle Postille al Nome della rosa, il postmoderno non è un epoca, ma un genere letterario e come tale esiste da quando esistono dei testi letterari. La Divina Commedia e Paradise Lost sono una già dei testi postmoderni nei confronti dalla materia da cui prendono ispirazione, cioè la Bibbia. A tal proposito consiglio la lettura del brevissimo saggio di Eliot dal titolo Tradizione e talento individuale, che parla proprio dell’arte come collezione dei rimandi intertestuali nella quale ha senso parlare propriamente di talento individuale e di innovazione artistica. (A questo link è presente il testo sia in inglese che in italiano).
Il postmodernismo ha creduto di poter rivendicare come principio della propria poetica, il principio che fonda la possibilità stessa di fare arte, a prescindere dal medium, ovvero il rimescolamento e il riferimento intertestuale. La sovversione delle regole esiste da sempre. Se esiste una specificità postmoderna forse la si deve cercare nell’autoironia consapevole e ammiccante con cui svolge questo processo. Ma probabilmente l’ammiccamento tipico dei postmoderni deriva dall’illusione di aver scoperto il sacro graal della letteratura. Quando capiamo qualcosa che crediamo di aver capito solo noi, saremo particolarmente motivati a dimostrare a tutti quanto siamo geniali, enfatizzando la nostra dimostrazione con una sorta di falsa modestia stratificata di autoironia, che non cerca altro che l’approvazione altrui. Questa è l’immagine che ho io di chi si definisce post moderno, credendo di aver scoperto il sacro graal, degli adolescenti che vogliono essere riconosciuti ma che si vergognano di ammetterlo. I postmoderni non hanno scoperto niente, e hanno fatto credere a tutti di essere rivoluzionari, rivelando quello che ogni artista sa da sempre: che le storie sono false e frutto dell’immaginazione e che i testi parlano di altri testi. E la cosa peggiore è che hanno fatto credere che questa rivelazione rendesse in qualche modo magico più autentiche e vere e profonde le loro storie altrettanto inventate e intertestualmente collegate, solo perché i layer ironici apposti sulle loro storie continuavano indefinitamente a crescere, rendendole per altro illeggibili (vedi Pynchon, lo scrittore più sopravvalutato tra i postmoderni). La proverbiale acqua calda. Spacciata per vino, però.
Ma ritorniamo al nostro tema dopo questa digressione critica.
Abbiamo capito che le regole sono piuttosto dei consigli per chi vuole andare sul sicuro, mettendo in pratica quello che funziona ed è già ben rodato dal punto di vista della tecnica e dell’uso di un medium. Spesso con i miei amici mi trovo nella necessità di descrivere la regolarità media (non dal punto di vista produttivo, ma piuttosto da quello filosofico-narrativo) di un’opera, e di solito usiamo il termine “quadrato”. Un film “quadrato” è ad esempio per me “Drive” o “The social network” o “Fight club”, o tutti i film di Fincher praticamente, “American Hustle” o l’ultimo film di Robert Eggers “The Northman”. Sono tutti film, che nelle loro abissali differenze stilistiche hanno qualcosa in comune: rappresentano l’espressione perfetta dell’utilizzo di certe tecniche, certi stilemi, certe situazioni. Sono quadrati nel senso che non pretendono di innovare o squadernare le regole del gioco. Semplicemente (ma non è affatto semplice, anzi) applicano in modo ineccepibile il linguaggio cinematografico. Sono film “da manuale”, nel senso che cristallizzano una situazione produttiva, portandola al massimo della loro potenzialità espressive. Questi film, a dispetto della definizione che ne ho dato, non sono affatto comuni. Anzi, sono rarissimi. Ciononostante sono filosoficamente neutri in rapporto al medium in cui operano. Sono i tipici film che sono contento di aver visto e che rivedrò anche volentieri nel tempo, ma che non metto nel novero dei film che mi hanno cambiato o a cui riconosco un cambiamento nel medium tout court.
Diamo un’occhiata alla definizione di “regola”: potremmo dire che la regola di un è un modo riconosciuto come valido di usare il linguaggio proprio di un medium. Vorrei porre l’attenzione proprio qui. Ogni medium ha una grammatica di base, degli elementi minimi attraverso cui veicola le storie che racconta. Nella letteratura questi elementi sono le parole, le descrizioni, i dialoghi ecc., nel cinema l’inquadratura, il montaggio, la musica, la sceneggiatura, le luci; nei videogiochi il level design, le musiche, le meccaniche di gameplay, il moveset degli NPC, ecc. Padroneggiare il linguaggio di un medium presuppone che una buona dose di regole standard (che sono riconosciute come tali nel periodo storico in cui si opera) debba essere conosciuta, semplicemente perché da qualche parte deve pur partire lo studio di un medium e prima di innovare, bisogna capire cosa innovare e in quali articolazioni del linguaggio poter dissestare l’ingranaggio per dire qualcosa che risulti nuovo e non banalmente sgradevole o che tragga il suo interesse dall’essere unicamente strano. Ovviamente questo processo di decostruzione critica delle regole di un genere, o di un medium in generale, non avviene a compartimenti stagni. Il creativo sottopone continuamente a una critica serrata le cose che impara, senza dare per scontata la loro universale applicabilità oggettiva. Forse è questo il grande fraintendimento: non succede quasi mai che si creda ciecamente alle regole per poi distruggerle altrettanto in blocco. Piuttosto fin da subito siamo sedotti da certi stilemi, certe tecniche e certe norme e più scettici verso altre, e anzi questa differenza di gusti è parte integrante del processo di apprendimento del linguaggio proprio di un medium, perché ci motiva a rivolgere la nostra attenzione verso certi temi piuttosto che altri, certi generi, tecniche, espedienti narrativi ecc. Così mentre critichiamo le regole che apprendiamo, pure stiamo costruendo una base ideale, un modello standard immaginario di utilizzo del linguaggio di un medium. Un modello del genere non esiste davvero, ma è un supporto utile per il creativo per capire in che direzione muoversi concretamente. Pezzi di questo modello standard è possibile che si concretizzino nelle opere che prima ho chiamato medie.
Top. Molto bella la definizione di opera "quadrato", e condivido che sia molto difficile trovarne tante. Tra quelli citati per me The Social Network è l'esempio perfetto soprattutto per quanto riguarda la sceneggiatura. Probabilmente la sceneggiatura "più hollywoodiana" dal 2000 a oggi. In quel senso, azzardo a dire anche fra le più importanti da studiare, proprio per le ragioni che dici.