INSEGNARE A SCRIVERE
Mi capita spesso, dopo aver fatto esperienze che traggono il loro valore dell’immersività ripetitiva del compito che le caratterizza, di chiedermi quale sia la legittimità con la quale dovrei scriverne qui. Poi mi ricordo che è la mia newsletter. Oggi parliamo di una domanda che è noiosa solo perché ogni volta che qualcuno la pone, qualcun altro risponde male: è possibile insegnare a scrivere?
Ultimamente mi sono ritrovato a leggere un numero abbastanza grande di manuali di sceneggiatura da farmi un’idea abbastanza chiara di come le persone che producono i film, vogliono che i film siano scritti. A Hollywood. Fa bene notarlo, visto che gli scrittori e le scrittrici di questi manuali, sono a vario titolo impegnati ad aiutare le majors hollywoodiane nel compito più difficile per ogni editore: trovare delle belle storie. E qualcuno che sappia scriverle. La produzione vera e propria, la promozione e la distribuzione, in confronto, sono dei giochi da ragazzi, meccanismi ben collaudati, con le loro regole e le loro convenzioni. Ma quando si parla della fase di sviluppo di un film o di una serie-tv, ecco che ci si ritrova quasi senza punti di riferimento. E il “quasi” è merito proprio di questi aiutanti, consiglieri che hanno inventato un ibrido perfetto tra la critica e il consiglio per gli acquisti. Solo che i loro consigli per gli acquisti non sono quelli degli influencer o della pubblicità. Sono una sorta di meta influencer, perché consigliano chi conta davvero. Chi produce. Non chi consuma. Ma chi sceglie cosa verrà consumato. Indubbiamente un lavoro interessante da analizzare.
I libri che ho letto sono 5: Story di McKee, L’arco di trasformazione del personaggio di Dara Marks, Il viaggio dell’eroe di Chris Vogler, Anatomia di una storia di John Truby, Come scrivere una grande sceneggiatura di Linda Seger. Pur nelle dovute differenze e nella levatura dei riferimenti, letterari, filosofici e cinematografici a cui questi meta influencer si richiamano, tutti ripetono più o meno le stesso cose. E questa è la prima cosa interessante da notare. E dopo averla notata, il lettore che si trovi nella singolare situazione di doverli leggere in sequenza e spesso sovrapponendoli l’uno all’altro, dovrebbe chiedersi: perché? Una prima risposta potrebbe essere che in quanto manuali che insegnano a scrivere bene una buona sceneggiatura, ci deve essere una sorta di accordo grossomodo condiviso riguardo a cosa sia una buona sceneggiatura. Credo che questa risposta tradisca una buona dose di ingenuità. Ovviamente ci sono dei tratti comuni tra tutte le grandi sceneggiature, ma il paradosso della scrittura e dei lavori creativi in generale è che gli elementi comuni all’arte del passato non garantiscono il successo artistico del futuro. E infatti i tratti comuni che vengono presi in considerazione non sono quelli delle sceneggiature che hanno segnato la Storia del cinema come medium.
La vera risposta emerge nel momento in cui si analizzano i riferimenti culturali, o quanto meno le citazioni esplicite a cui si richiamano questi autori quando devono fare paragoni e suggerire esempi. Dopo questa analisi, diventa chiaro che al netto della correttezza di molti spunti, della ricchezza dei meccanismi che vengono analizzati e dalla precisione con la quale si mostra il funzionamento della struttura, il vero tema di questi manuali non è come scrivere una buona sceneggiatura. Ma come scrivere una sceneggiatura che sia vendibile. A scanso di equivoci ci tengo a precisare che questo non è un male in assoluto. Ben venga, anzi è forse anche più saggio e meno presuntuoso cercare di perseguire realisticamente questo compito piuttosto che dare istruzioni sugli ingredienti dell’Arte con la A maiuscola. Non perché la ricetta dell’Arte sia impenetrabilmente mistica. Ma perché forse non esiste affatto nessuna ricetta specifica che garantisca l’Arte e dunque nessun misticismo da usare come ingrediente segreto.
EPPUR SI MUOVE
Tutti questi autori infatti partono da un anti misticismo molto pragmatico riguardo alla scrittura, che io condivido in pieno. Nessuna ispirazione divina o benedizione genealogica, ma il sudore, l’editing e la riscrittura. Questo è un grande merito che bisogna riconoscergli. Ma.
Nemmeno una singola volta questi manuali cercano di smontare i meccanismi dei film di Kurosawa, Wong Kar-wai, Fritz Lang o David Cronenberg. E l’unica domanda che uno studioso del cinema continua a porsi durante la lettura è: perché questi autori continuano a citare film come Il mago di Oz o All’inseguimento della pietra verde o Shine? Film che per quanto siano di buona fattura e condividano un certo livello di production value, non spiccano nella storia del cinema per inventiva. La risposta è semplice: perché se citassero Nanni Moretti e David Lynch tutto quello che dicono sarebbe smentito. E qui sta la disonestà sottaciuta di questi manuali: non ti insegnano a scrivere una buona sceneggiatura ma una sceneggiatura vendibile. Le due cose possono ovviamente sovrapporsi, ma l’una non implica l’altra e dovrebbero essere tenute separate in fase di analisi.
Sono dell’idea che un bravo scrittore debba essere capace di scrivere per vendere. Pensate se uno scrittore, che si guadagna da vivere attraverso la finzione, e facendo finta di essere qualcuno che in realtà non è, ritenesse un motivo di vanto il fatto di non riuscire a scrivere in modo commerciale. Un bravo scrittore sa fingere. E tra le varie funzioni a cui la finzione può assolvere, può esserci quella dell’imitazione della formula del successo. Tanto più che da un punto bisogna pur iniziare se si vuole arrivare alla finezza di Cronenberg e Kurosawa. E la formula commerciale consente un inizio molto più solido e pragmatico alla scrittura, proprio perché in quanto formula, disinnesca il mito dell’illuminazione divina che lo scrittore serio può anche permettersi di credere ma mai di applicare.
L’arco di trasformazione del personaggio, il dialogo sinfonico, il terrore della voce fuori campo e il divieto dell’interiorità dei personaggi, il principio dell’esternalizzazione, sono tutte regole perfette per chi inizia a scrivere proprio perché disinnescano i rischi dei cliché per chi tenta di imitare l’Arte senza avere nulla da dire, credendo che basti la struttura dell’Arte a rendere qualcosa tale senza sostanziarlo con nulla. Ben vengano queste regole. Ma nessuno alla fine dei propri manuali ha avuto l’onestà di consigliare agli aspiranti sceneggiatori di andare là fuori alla ricerca di tutti i modi in cui un film può funzionare al di là di quelle regole che hanno insegnato. Nessuno ha avuto il coraggio di suggerire a questi giovani scrittori che quelle regole sono solo un comodo appoggio in caso di necessità e niente più che un punto di partenza da superare. Nessuno ha avuto la decenza di suggerire di guardare Caro diario, di Nanni Moretti, dove c’è una voce fuori campo per tutto il film, poco e niente arco di trasformazione del personaggio e tanta riflessione personale. Nessuno di quei lettori si chiederà mai come diavolo fa allora a funzionare anche un film del genere.
E nessuno si renderà conto che le regole sono degli ingredienti, non delle ricette.
Quale hai preferito dei 5 alla fine, se proprio ne dovessi leggere uno?🤣